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Il Reporter marzo 2020

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Quel bisogno di utopia

Aerocene è un invito a immaginare qualcosa di diverso, a dire che esiste un altro futuro possibile”. Quasi non si può parlare dell’arte di Tomás Saraceno senza che prima o dopo spunti fuori la parola utopia. E d’altra parte lui stesso, presentando la mostra Aria a Palazzo Strozzi, ha parlato a lungo dell’Aerocene, che è sì un gruppo di sculture, è sì il gruppo di lavoro che ha fondato insieme a scienziati e artisti, ma è soprattutto la sua idea di un nuovo rapporto tra uomo e pianeta. Saraceno è un ottimista. Crede nella vitalità del mondo, pensa la natura come un unico organismo complesso. Ha fiducia nella possibilità che ha l’uomo di conoscerlo, e dunque anche di immaginarlo diverso.

Nel 1516 Tommaso Moro descrisse un viaggio immaginario su un’isola dove gli uomini avevano costruito una società ideale, una pacifica repubblica retta su lavoro, tolleranza, moderazione e cultura. Intitolò quel romanzo Utopia, inventandosi una parola che gioca sull’ambiguità fonetica tra il prefisso greco antico eu, “bene”, e la negazione ou, messi davanti alla parola topos, “luogo”: l’utopia era un posto tanto buono quanto irraggiungibile. Da allora e per secoli i grandi pensatori hanno messo a confronto le loro proposte di mondi perfetti. L’utopia divenne un genere letterario. Poi il sogno è finito.

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Nel Novecento i regimi autoritari hanno inseguito utopie corrotte e deliranti dalle cui ceneri è emersa l’era della minaccia atomica, dell’inquinamento e di troppe nuove ragioni per temere il peggio. È stato il secolo della distopia, l’utopia al negativo, la risposta alla domanda contraria: e se tutto andasse per il verso sbagliato? Da Il mondo nuovo di Huxley a Black Mirror, da Blade Runner a Fallout, il cinema, la letteratura, le arti e l’intrattenimento da allora non fanno che fabbricare futuri agghiaccianti d’ogni tipo. Negli ultimi anni, in special modo, la distopia è diventata prodotto di consumo con un ampio catalogo di catastrofi, pandemie, tirannie e apocalissi. Fino all’abbuffata. Oggi che la sensazione di un mondo lanciato verso il disastro è tanto più forte, c’è forse davvero bisogno di qualcuno disposto riprendere la strada al contrario.

Vedere le opere di Saraceno nelle sale di Palazzo Strozzi, simbolo della Firenze umanista che sognava di rifondare il mondo sulla centralità dell’uomo e della sua coscienza, non fa che aumentarne la suggestione. È un invito a resistere alla tentazione di bollare come infantile ogni tentativo di migliorare la realtà in cui viviamo. Se vogliamo un mondo migliore, dobbiamo cominciare a immaginarlo.

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Andrea Tani
[email protected]

 

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