sabato, 20 Aprile 2024
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Le parole della pandemia: intervista a Vera Gheno

Il virus ha cambiato persino il nostro modo di parlare. E ha aumentato la distanza tra la lingua del quotidiano e quella del potere

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vera ghenoVera Gheno è una sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall’ungherese. Insegna all’Università di Firenze e alla Lumsa di Roma. Ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca, collabora con Zanichelli ed è autrice di saggi scientifici e divulgativi. I suoi profili Facebook e Twitter

 

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Alcune spaventano: mai avremo pensato di dover vivere una quarantena, mai di sentire così spesso che qualcuno si è ritrovato intubato. Altre quasi ci hanno fatto ridere, di quel sarcasmo amaro che nasce dal ritrovarsi a dover usare una parola come congiunto. Abbiamo scoperto i paucisintomatici, la pericolosità dei droplet, il rigore del lockdown e che si potesse fare didattica a distanza. La pandemia ha cambiato il modo di parlare. Ha portato parole nuove nelle conversazioni, fatto riscoprire o cambiato il significato di altre che quasi avevamo dimenticate.

Vera Gheno, docente dell’Università di Firenze, sociolinguista “pop” ben nota a chi frequenta i social network, ha fatto un esperimento. Ha chiesto ai suoi contatti su Facebook di elencare le prime tre parole che venivano alla mente pensando al momento che, nella primavera scorsa, a lockdown appena iniziato, stavano vivendo. Quell’esperimento è diventato un libro, “Parole contro la paura”, edito da Longanesi in formato digitale.

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Le chiediamo di tornare a quei giorni. I giorni della nazione unita nello sforzo, del nemico invisibile, dei medici eroi e degli infermieri in prima linea. Così si diceva, come se si volesse restituire alle parole la loro funzione ancestrale, quella di creazione del mito, per spiegare e accettare il soprannaturale. O no?

“È una lettura fin troppo ottimistica”, risponde Gheno. “È vero, quegli elementi c’erano. Ma il ricorso insistente al campo semantico della guerra credo sia stato più frutto del non sapere cosa dire. Io, insieme ad altri che si sono occupati del fenomeno l’abbiamo giudicato in maniera molto negativa. Da una parte ha contribuito a creare paura e panico, dall’altra ha alimentato la giustificazione e l’autogiustificazione di gesti e azioni che in tempi di “pace” non sarebbero stati considerati accettabili. Come diceva Susan Sontag (filosofa statunitense, ndr) “La guerra è pura emergenza, in cui nessun sacrificio sarà considerato eccessivo”. E la guerra presuppone l’esistenza di nemici. C’è stata una proliferazione assolutamente inutile di supposti nemici. Siamo partiti dal “nemico invisibile”, ma siccome quello non basta, perché non soddisfa il nostro istinto, molto presto si è creata una schiera di nemici molto tangibili. I cinesi, il “paziente uno”, i lombardi in generale e via via altre categorie: i bambini, gli anziani, i jogger, quelli che facevano la spesa. Il problema strutturale è l’incapacità, o la scarsa volontà, di raccontare i fatti rimanendo solo sui fatti. La tendenza molto italiana al barocchismo.

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Non a caso, quando ha chiesto alle persone di scegliere le parole della loro pandemia, il lessico da racconto epico è sparito ed è rimasto invece un racconto minimo, quasi confidenziale.

Con l’esperimento del libro è proprio emersa questa cesura fra la narrazione pubblica e quella privata della pandemia. Quando ho iniziato non avevo idea di come mi avrebbero risposto. Evidentemente, al di là della dimensione pubblica, in un momento come questo c’è una dimensione umana, la dimensione delle piccole cose, che – grazie al cielo – manteniamo. Un’umanità che ha bisogno di famiglia, di libri, di bambini, di silenzio, di casa. Cose che scivolano nei crepacci degli eventi. I libri di storia non parleranno di guanti e di Amuchina, ma di quanti morti, quanta distruzione, di quanto è sceso il Pil. Ho voluto provare a salvare queste piccole cose. Il fatto che alla lettera A la parola più citata non sia stata ansia o angoscia, ma attesa, indica proprio come il normale fluire della vita sia stato spezzato.

Se oggi si rifacesse lo stesso esperimento mi aspetterei che quell’attesa sia diventata impazienza. Fin dall’inizio ci è stato detto che la soluzione alla pandemia era vicina, ma mai quanto vicina. E dopo nove mesi l’attesa stanca. Le parole, in tempi come questi, hanno una responsabilità pari a quella delle azioni?

Sì, anche perché molte azioni non le vediamo, avvengono su un macro-palcoscenico che, singolarmente, ci tocca solo nel suo pezzettino finale. Il modo in cui si comunicano queste azioni allora è importantissimo. Purtroppo non ho una grande opinione di come si sono mossi i mezzi di comunicazione ma, soprattutto, chi ci governa. Perché Angela Merkel riesce a parlare ai suoi concittadini senza sembrare un papà che ti dà i buffetti sul sederino se ti comporti male? E non intendo la certezza della pena per chi commette un errore, ma questa finta bonarietà da “se fate i bravi, avrete il vostro Natale”. Qual è l’atteggiamento sottostante? Temo che sia il pensare che gli italiani siano in sostanza deficienti, che il popolo sia davvero bue e che quindi vada tenuto buono a forza di contentini. In parte perché nemmeno chi ci governa ha veramente idea di dove andare a parare.

Si è fatta anche molta ironia sulle parole di questi mesi, dai congiunti agli assembramenti. Durante le conferenze stampa del governo succedeva una cosa divertente: su Google si registrava ogni volta un’impennata di ricerche per certi termini che si sentivano pronunciare in tv: prodromico, soverchi, poderoso. Molti probabilmente non li avevano nemmeno mai sentiti e andavano a cercarsi il significato. È anche qui lo scarto tra la narrazione ufficiale e quella quotidiana?

Peraltro tutte quelle parole hanno un sinonimo facile. Possibile che quando parli a una nazione non riesci a seguire un precetto semplicissimo? Devi pensare a chi ti stai rivolgendo. È la grande differenza tra una comunicazione performativa e una comunicazione generativa, tra “guardate quanto so’ figo” e “sono al vostro servizio, cerco di dire le cose nella maniera migliore affinché possiate comprenderle”. Anche perché è importante in questa fase capire esattamente cosa si può fare e cosa non si può. È la lingua che rompe i ponti invece di costruirli, che crea distanze invece di colmarle. Che fondamentalmente non fa il suo lavoro. È l’antilingua di cui Calvino parlava già negli anni Sessanta, quella di chi dice “ho effettuato” invece che “ho fatto”, come se “ho fatto” puzzasse.

Nel suo libro scrive anche che in questo momento “ci manca il racconto del futuro”. Da quali parole possiamo ripartire per iniziare a scrivere questo racconto?

Non lo so, faccio moltissima fatica a pensare al futuro. Riusciamo a pensare al futuro anteriore: quando tutto sarà finito. Ma ci manca il futuro semplice, immediato. Citerei allora tre parole: un forestierismo, un neologismo e un vernacolarismo. La prima è ikigai, una parola giapponese che indica “la cosa che ti fa alzare la mattina”. Se ancora non possiamo contare sul futuro prossimo cerchiamo almeno di stare bene nel tunnel in cui siamo finiti, cerchiamo di arredarlo questo tunnel. L’altra è una bella parola che usa Nassim Nicholas Taleb (filosofo e saggista libano-americano, ndr), che è antifragilità. Ovvero usare lo stress, le cose che ci mettono alla prova, non per difendersene ma come un punto di partenza per rinforzarci. Infine, come si dice a Napoli, la cazzimma. Un misto – nemmeno sempre positivo – di tigna, resistenza interiore e anche sardonica rispetto alle prove della vita. Mettiamoci lì e con cazzimma arriviamo in fondo a questa pandemia.

Da Il Reporter di dicembre 2020 – Sfoglia online

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