domenica, 17 Novembre 2024
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Recensione Film: La pelle che abito

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All’inizio la narrazione sembra indecifrabile come possiamo attenderci da un thriller o da un noir, ma procedendo nella visione, il film diventa molto altro rispetto ad una pellicola di genere. Banderas (dopo anni di latitanza) è l’attore scelto da Almodóvar per interpretare Ledgar, un medico che dopo la morte della moglie, vittima in un incendio, investe ogni ricerca ed energia per ricostruire un tipo di pelle transgenica. Straziato e mosso da sentimenti vendicatori, il chirurgo estetico che opera al di là di ogni bio(etica), decide di utilizzare per i suoi esperimenti una cavia umana che segrega in una villa isolata dal resto del mondo. Con la complicità di Marilla, figura a metà tra madre e domestica, e in uno scenario dotato di monitor televisivi dai quali vigila sul suo perverso progetto, Ledgar crea qualcosa di bellissimo e altrettanto orribile.

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Se nella scena iniziale di Parla con lei, il regista inseriva una forte dose di empatia attraverso l’espediente teatrale, luogo dove i corpi sono per eccellenza fisici e carnali, fin dalle prime immagini di La pelle che abito sembra suggerirci che il suo sguardo si muove seguendo il flusso meditativo dello yoga. Davanti al corpo elastico di Vera (Elena Anaya) intenta nei suoi esercizi di raccoglimento, sembra infatti subito concretizzarsi l’ipotesi che il racconto ruoti intorno ad una riflessione tra corpo e una spirituale ricerca interiore. Questa scelta che conduce ad una maggiore elaborazione mentale del materiale filmico ed un parziale allontanamento da quell’emozionalità viscerale di Volver o Gli abbracci spezzati, corrisponde ad un certo rigore formale  ed una traduzione estetica più essenziale sia nella regia (basti pensare alla precisione del montaggio) sia nella sceneggiatura.  Lo stesso luogo asettico crea un certa sensazione di distacco, come appare stilizzato il corpo (racchiuso nella tuta ermetica) dell’Anaya. L’interprete a momenti impassibile e vitrea, a tratti capace di sorprendere con scatti passionali ha reazioni che sembrano invece essere assenti nell’algida e convincente rappresentazione della chirurgia estetica (Banderas). Nonostante l’apparente freddezza formale, il film è capace di comunicare e sconvolgere con la forza di pochi gesti essenziali, quadri intrecciati tra loro nel passato e doloroso vissuto dei personaggi. Entrambi gli interpreti contengono, infatti, tutta la ricchezza dei loro precedessori (i protagonisti del romanzo Tarantola di Thierry Jonquet da cui il film è tratto) qui adattati per raccontare lo smarrimento e il recupero dell’identità.

Il cineasta scava dunque nei labirinti di una situazione privata, ma disegna anche con la meticolosità del bisturi un fenomeno collettivo, stimolandoci a riflettere come l’unicità della nostro volto possa diventare (per mezzo di una chirurgia estetica sempre più avanzata) un oggetto riproducibile all’interno di un mercato globalizzato. Cambiando in parte registro, ma rimanendo sempre quell’autore interessato a raccontare la propria poetica, Almodóvar si modifica, ma resta in fondo se stesso; ritornano, infatti, gli attori Banderas-Paredes, si riaffacciano i suoi tocchi di humour iberico, le oscillazioni romantiche e le ossessioni ricorrenti. Ciò a cui ci troviamo davanti è dunque qualcosa di nuovo inserito in qualcosa di vecchio e  girato in grande stile.

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