Andiamoci piano
Girava un meme simpatico qualche mese fa. Da una parte, la foto di un uomo di mezza età, sovrappeso e addormentato in posa scomposta sul divano. “Italiani durante tutto l’anno”, diceva la didascalia. Sotto, tre maratoneti con scarpette da corsa e pettorina: “Italiani quando gli viene detto di rimanere in casa in quarantena”.
Se non proprio a correre, persino i più improbabili tra noi col lockdown hanno imparato a camminare. Ora che ci risiamo, che anche tra congiunti è vietato (pardon, fortemente raccomandato non) fare tutto il resto, riprenderemo a camminare, ultima forma di socialità analogica. Almeno questo: il confinamento è un’esperienza traumatica per chi abita negli appartamenti di città. Studenti a distanza, lavoratori smart, bambini, pensionati… alla lunga la casa diventa un incubo claustrofobico, si cerca l’aria. Fuori, dove non importa.
Un piede davanti all’altro, senza nemmeno allontanarsi troppo, è un modo spontaneo per sentire d’esser vivi. Poco traffico sulle strade, vuote le autostrade, mezzi vuoti i vagoni dell’alta velocità, mentre l’Europa delle low cost, i fine settimana nelle capitali, il mondo intero a mezza giornata di volo non esiste più. La pandemia ha risucchiato l’orizzonte del nostro loisir, di tutto ciò che non è lavoro e dunque è cinema, bar, ristorante, teatro, gita. Il tempo, se è libero, è a piedi. Possiamo farne tesoro? Beninteso, tutta la retorica sulla riscoperta della bellezza nei dintorni di casa e del senso di tutto che sta nelle cose semplici ce la risparmieremmo volentieri. Vero è però che una passeggiata, al contrario di certi giri in macchina senza meta, non è mai un’esperienza deludente. Insegna ad aver pazienza, virtù che torna comoda per questi tempi.
Qualche settimana fa l’Organizzazione mondiale della sanità ha fatto uscire un pamphlet sulla pandemic fatigue, la stanchezza da pandemia. Tra i cittadini dei paesi dell’Europa occidentale si registra una crescente demotivazione a rispettare le prescrizioni sanitarie e a mantenere i comportamenti utili a contenere il contagio da Covid-19. C’entrano resistenze sociali, emotive, culturali, molte delle quali inasprite dalla durata di questa emergenza. Abbiamo a che farci da nove mesi, un tempo incompatibile con la nostra idea del mondo domato dall’uomo e dalla sua tecnologia. L’ipotesi stessa di una pandemia, un anno fa, pareva relegata ai tempi antichi. Titolare di una bella quota di questo senso di impazienza è la comunicazione irresponsabile dei governi nazionali – non tutti, ma quello italiano non fa eccezione – i quali fin dall’inizio hanno spergiurato che certe misure straordinarie, per quanto drastiche, erano transitorie, estremamente transitorie. E il messaggio è stato, nell’ordine: che l’estate se le sarebbe portate via, che avremmo avuto le nostre vacanze, che non c’erano rischi nella ripresa di scuola e lavoro, che forse nemmeno sarebbe arrivata una seconda ondata e, ora, che con l’ultimo sforzo avremo in premio un Natale sereno.
Tutti abbiamo bisogno di verità consolatorie, ma nel mezzo di una tra le peggiori pandemie di cui il genere umano abbia fatto esperienza non esistono risposte facili. Serietà minima vorrebbe che la classe dirigente lo dicesse con trasparenza, e poi aggiungesse che col virus dovremo fare i conti per altri 6-10 mesi, ad andar bene. Di pazienza, la virtù del camminatore, ne servirà ancora tanta. Una passeggiata ci salverà, per qualche ora almeno.
Andrea Tani
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