I Gatti Mézzi si sono esibiti il due luglio con il livornese doc Bobo Rondelli in occasione dell’uscita del loro ultimo album, confermando come la scena teatrale e la musica dissacrante uniscano assai più dell’antica contesa Pisa-Livorno. Il duetto formato da Francesco Pottai e Tommaso Novi nasce, infatti, nel 2005 nella provincia pisana, ma affatto provinciale è la raffinatezza dei suoni e la singolarità dei testi che unisce i loro pezzi musicali. Dopo il debutto nel 2006 dell’album autoprodotto Anco alle pulce ni viene la tosse, la favorevole accoglienza di Amori e Fortori e del successivo Struscioni tradottasi nel premio Ciampi (omaggio a Stefano Ronzani), i Gatti Mézzi tornano sui palchi con una nuova produzione tutta ferina: Berve fra le berve.
La parola, basilare nella loro composizione creativa è un codice che trova le proprie radici nel dialetto locale pensato come valorizzazione non di quella “Pisa bene”, ma come riscoperta di un mare e di un esotismo non troppo lontano dagli anfratti della loro città. Tale ricerca che si muove a colpi di jazz e swing, naviga dalle sponde dell’Arno fino ai più nascosti vicoli pisani per mettere in luce le tragi-commedie dei personaggi onirici nati dalla fantasia dei due autori.
All’interno del disco pare maturare tuttavia una parallela riflessione più profonda: “Chi sono le vere le belve?” si chiedono i Gatti Mézzi. Il già citato Bobo Rondelli sui temi del rapporto uomo-animale aveva declamato il suo pensiero con il pezzo ursino Gigi Balla e i metamorfici Gatti in quest’ultima produzione rispondono con Il cervello ponendo una riflessione su quanto sia inquietante mangiare le idee dell’animale (se poi penso a quei pensieri/ penso anch’ar fardello/ cosa pensa l’animale/ mentre va ar macello).
Metafora dei rapporti bestiali che non si instaurano soltanto con i nostri diretti eredi, ma spesso si insinuano e stabiliscono anche tra individui di specie umana, i due artisti che nella copertina vintage del loro album si contendono un pesce crudo, creano equivalenti testi mordaci (Ir bao di sego, Anarfamondo, I gatti der Giari) per introdurre questioni altamente spinose ma capaci di conservare una delicata leggerezza grazie all’arma insostituibile dell’ironia e del vernacolo.
Eredi del teatro canzone di Giorgio Gaber, tributari di Paolo Conte, nell’album non si affermano particolari pezzi sugli altri (nonostante Balena resti di un’insostituibile lirismo), poiché trattasi di una produzione che scivola come una sorta di racconto tramandato, nel quale ciò che si intende non può essere spezzato in frammenti. Per questo motivo forse il modo migliore per ascoltarli è vederli nel tour toscano in fieri: assistere alle inedite sperimentazioni del contrabbasso (suonato con l’arco) e della batteria, guardarli recitare sul palco e sentirli meditare sulle loro ricette furbastre tese a recuperare la nostra natura umana primitiva e cacciarne la parte più bestiale.