Eh..già! Non era possibile non scrivere una recensione sull’ultimo lavoro di Vasco Rossi. Da quando è uscito, a fine marzo, si è piazzato ai primi posti della classifica degli album.
Mi è sempre stato simpatico Vasco, molto più di Ligabue (alimentiamo pure questa lotta senza fine alla Beatles vs Rolling Stones tutta italiana). Alcune sue canzoni sono diventate patrimonio della musica italiana, altre erano geniali e quel suo atteggiarsi a guascone, da uomo simbolo di una Vita Spericolata, una volta mi rapivano. Ora mi fa tenerezza e non riesco a farmelo risultare antipatico, anche se il fatto che ogni suo album, a scatola chiusa, diventi in men che non si dica campione di incassi -capisco- che possa essere irritante.
Vasco è un marchio, Vasco è evento di per sé: non fa più notizia dire che lo stadio San Siro è per lui una seconda casa, un’arena che diventa quasi una chiesa dove i suoi fedeli si riuniscono per ascoltare la sua omelia.
Questo suo sedicesimo lavoro, rispetto agli ultimi due, vede il Blasco lasciare un po’ da parte le atroci vesti da eterno Peter Pan ubriaco. Vivere o niente mostra in parte l’uomo che è diventato alla soglia dei sessant’anni con il suo continuare ad esserci: sempre con i soliti vizi e biascicamenti, ed “ehhhh…”, ma con la consapevolezza che ormai è a tutti gli effetti un signore di una certa età a cui dare del lei.
I testi in questo album sono assolutamente auto celebrativi, ma dove non c’è l’ostinazione nel voler farsi vedere giovane, il risultato è buono, in altri dove invece Vasco è “obbligato” ad essere Vasco, il risultato è purtroppo imbarazzante. Non c’è proprio nulla da fare: mi fa ancora simpatia.
Andiamo con ordine. Già la copertina del disco fa sorridere. Molti la vogliono spacciare come metafora dell’artista che cerca di lasciare indietro qualcuno: sta scappando? Sta controllando come se la cavano gli altri? A me sinceramente la postura ricorda la manovra del posteggio. Sta parcheggiando nell’area di sosta? Di sicuro, di inseguitori che reggano il suo passo nelle vendite non ce ne sono e se lo può concedere. Oltre a questa divagazione, le prime tre canzoni di Vivere o niente sono piacevoli all’ascolto: Vivere non è facile ha una buona sonorità strutturata in solidi arrangiamenti come Manifesto futurista della nuova umanità e Starò meglio di così. Eh…già è auto celebrativa, ma furba e quindi non può non piacere con il sax che parte e te che ti ritrovi proiettato in clima da concerto con la gente che si abbraccia mentre ad occhi chiusi canta il ritornello. E giù applausi. Però poi sono un po’ buttati lì gli archi in Vivere o niente ( perché alla fine si arrabbia e perché ha dovuto fare due canzoni con il verbo vivere?). Non sei quella che eri propone un testo abbastanza agghiacciante come d’altronde Sei pazza di me (Vasco hai sessant’anni, dai!). L’aquilone poi è una canzone che dichiara fin da subito grandi pretese, ma che fondamentalmente è un po’ una cosuccia di poco conto. Stammi vicino è un lento che ha tutto di Vasco e va ad aggiungersi ad Eh..Già per il discorso degli occhi chiusi e dello stadio (pronti con gli accendini): non passerà alla storia, ma va bene.
Tiriamo quindi le somme. Vasco è questo oggi: molta poca rabbia e per favore non entriamo nel sociale né nel politico. Funziona quando si prende in giro e ammicca. Non è un fenomeno musicale: è fenomeno culturale, specchio dell’italiano medio che cerca a tutti i costi l’icona. Eccolo servito!