L’8 marzo 2021 è un 8 marzo diverso. Non solo per le restrizioni alla socialità che limitano la possibilità di celebrare la ricorrenza con incontri e manifestazioni, ma anche perché l’8 marzo coincide più o meno con il primo anniversario della convivenza con la pandemia da Covid-19 in Italia. Una pandemia dalle conseguenze sociali ed economiche ancora difficilmente calcolabili, che ha radicalmente trasformato le abitudini e le relazioni interpersonali. Comprese quelle a rischio di violenza e di fragilità. Basta un dato, tristemente eloquente, a darne la misura: nel 2020, il Centro antiviolenza Artemisia ha raccolto 946 richieste in totale.
Violenza sulle donne, i dati 2020 del Centro Artemisia a Firenze
Nei suoi 26 anni di attività, il Centro antiviolenza Artemisia ha preso in carico 18.107 richieste di aiuto, di cui 13.326 provenivano da donne in situazione di violenza in atto, 3.491 da minori vittime di maltrattamento e abusi sessuali e 882 richieste di aiuto da parte di adulti vittime di violenze subite nell’infanzia. Nel 1999 il Centro ha aperto la sua prima casa rifugio a indirizzo segreto (per i casi ad elevato rischio) dove sono state ospitate in totale 197 donne e 221 minori, mentre nella casa di seconda accoglienza (specifica per l’allontanamento da situazioni a basso-medio rischio) attiva dal 2018, sono state ospitate 9 donne e 13 minori.
Nel 2020, però, la convivenza forzata, l’isolamento, l’aumento delle fragilità e delle povertà determinate dalle misure di lockdown e dalle limitazioni successive hanno costretto le operatrici del centro ad adattare i propri servizi e a immaginare percorsi nuovi e alternativi sia per garantire il sostegno necessario che per prevenire la diffusione del coronavirus. Un’esperienza complessa che ha richiesto un po’ di immaginazione, tanta flessibilità e tanto impegno.
Leggi anche: Violenza di genere, l’altra pandemia
Solo nel 2020, infatti, il Cav ha accolto le richieste di 946 donne in situazione di violenza in atto. Nel 50% dei casi si è trattato di violenza fisica-psicologica, nel 22% di violenza psicologica, 12% di violenza economica. Il 7% erano casi di stalking e il 9% di violenza sessuale. Le richieste accolte comprendono anche 748 minori coinvolti in qualche modo dalla violenza subita dalle madri da parte del padre, del partner della madre o da un familiare. Artemisia ha poi raccolto 91 richieste di aiuto per minori maltrattati o vittime di abuso e 38 richieste per violenze subite nell’infanzia.
Le misure e i percorsi normalmente attivi per la presa in carico di richieste sono stati molto influenzati dalle limitazioni. Alcuni servizi sono stati trasferiti online attraverso le piattaforme di interazione digitale ma non è stato sempre facile, come spiega Ilaria Bagnoli, operatrice del Centro Artemisia. “Il Centro Artemisia lavora sempre con un primo contatto telefonico e su appuntamento. Durante tutto l’anno il centralino è rimasto sempre aperto per continuare a fare screening, ma abbiamo scelto di rafforzare la comunicazione tramite i social network e i canali più diretti che avevamo a disposizione”.
“I colloqui che avvengono nella fase successiva allo screening – continua Bagnoli – sono stati condotti da remoto. A primo impatto sembrava semplice, ma ci siamo trovate a immaginare soluzioni nuove e flessibili in modo da evitare che gli autori della violenza o del maltrattamento o i figli, soprattutto se piccoli, si trovassero nelle vicinanze durante le telefonate. Infatti, per ogni colloquio abbiamo aumentato il numero di operatrici, così che una potesse giocare o parlare con i figli e distrarli da ciò che avrebbe potuto dire la madre. Con queste stesse modalità abbiamo proseguito il lavoro nelle case rifugio, ma non è stato semplice perché è proprio in questi percorsi che diventa necessario il contatto fisico, la presenza, la co-costruzione delle strade di uscita dalla violenza”.
Sostituire i colloqui in presenza con i colloqui da remoto ha avuto delle conseguenze sulla presa in carico di nuove richieste?
“Sicuramente nel periodo di restrizioni più forti le difficoltà sono state più pesanti per le donne che non avevano i mezzi informatici o digitali per rispondere ai colloqui. La distanza ha inoltre acuito l’effetto delle barriere linguistiche. Tornare all’incontro in presenza diventava per tutti sempre più importante. Infatti, non appena abbiamo potuto, a giungo, abbiamo ripreso le attività nel Centro”.
Per quanto riguarda i percorsi di allontanamento, come li avete conciliati con le nuove misure e come sono cambiati?
“I percorsi di allontanamento solitamente si fanno nelle situazioni in cui il rischio è elevato. La valutazione avviene al telefono o in collaborazione con la rete regionale Codice Rosa, di cui fanno parte i Servizi Sociali, le Forze dell’Ordine e le reti territoriali dei Centri Antiviolenza. Quest’anno, il lavoro in questo senso è stato effettivamente reso più complicato per la necessità di prevenire il rischio sanitario. Infatti, al normale percorso di allontanamento è stato aggiunto un periodo di quarantena prima dell’inserimento in struttura. Un passaggio delicato durante il quale era necessario evitare un possibile trauma dentro un trauma, dovuto all’isolamento e al ritardo dell’inizio dei percorsi di sostegno. Tuttavia, gli effetti e le conseguenze dei cambiamenti dovuti alla pandemia sui percorsi intrapresi dalle donne e dai bambini vittime di violenza e/o maltrattamento sono ancora troppo complessi per dargli un’interpretazione esaustiva”.
Guardando al fenomeno in sé, avete notato delle variazioni significative?
“Inizialmente, nel periodo immediatamente successivo all’imposizione del lockdown, c’è stata una fase di silenzio preoccupante. Un silenzio sicuramente dovuto al cambiamento così repentino. Poi il numero delle richieste è aumentato, soprattutto da parte di quelle donne e minori che già stavamo seguendo, nei quali si è acuita una sintomatologia post-traumatica a causa dell’aumento di un generale malessere. Una sintomatologia particolare che si presenta in tante situazioni di maltrattamento e violenza e che ha quindi portato ad una crescita del bisogno di sostegno e accompagnamento.
Sul lungo periodo, dopo la ripresa delle attività in presenza a giugno, abbiamo notato un primo calo di richieste verso ottobre. L’incertezza, la crescente fragilità e la precarietà, soprattutto economica, ha reso molto più complessa la scelta di allontanarsi da un partner violento o maltrattante e ha influito sulla capacità di immaginare percorsi alternativi e di costruire nuove strade.
Per cercare di arginare un pericolo di aumento della violenza a causa dell’isolamento, sarebbe necessario poter aumentare l’erogazione di aiuti economici, rafforzare le collaborazioni a livello locale per il sostegno alimentare e per la distribuzione di farmaci. Inoltre, pensiamo che sia sempre più il caso di attivare dei servizi più vicini ai nuclei familiari, insegnando alle madri a leggere i segnali in modo da poter migliorare la prevenzione.”
La diminuzione delle richieste e la difficoltà di intraprendere nuovi percorsi non significa che il fenomeno sia in diminuzione: i dati sui femminicidi dipingono una situazione ancora molto complessa che rischia di aggravarsi nell’isolamento. Le conseguenze sociali ancora difficili da prevedere rischiano di rendere le persone in situazione di difficoltà invisibili e più esposte a violenza. Per questo, il lavoro di sensibilizzazione, educazione e di conoscenza della violenza è sempre più importante.