La maggior parte di loro ha lasciato il Paese d'origine per colpa della crisi economica. Per questo, adesso che hanno trovato un'occupazione, il lavoro è in cima alla lista delle loro priorità. Per lo più addette alle pulizie o all'attività di portierato, sono orgogliose della loro professione malgrado da molti sia ritenuta “umile”. Perché è proprio grazie al lavoro e al senso di appartenenza alla cooperativa che dicono di sentirsi a casa pur essendo migranti, cittadine italiane a tutti gli effetti a dispetto di quanto è scritto sulla loro carta d'identità.
È il quadro che emerge dalla ricerca “Che genere di diversity? Una lente di genere su integrazione lavorativa e cittadinanza” condotta dall'Istituto Dirpolis della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa tra le donne straniere occupate in Cooplat, la cooperativa fiorentina di servizi tra le maggiori impegnate in Italia nei settori dell'ecologia e del facility management con quasi tremila addetti e un fatturato di 85 milioni di euro nel 2013. Lo studio è stato presentato oggi alla Biblioteca Nazionale di Firenze alla presenza del presidente della cooperativa Fabrizio Frizzi, della professoressa dell'Istituto Dirpolis Anna Loretoni, responsabile scientifica della ricerca, e la dottoressa Alessia Belli, assegnista della Scuola Sant'Anna, autrice dell'indagine. Presenti inoltre l'assessore regionale al Lavoro Gianfranco Simoncini e l'assessore al Personale del Comune di Firenze Federico Gianassi, intervenuti alla tavola rotonda “Lavoro valore di cittadinanza” coordinata dal presidente di Legacoop Servizi Toscana Angelo Migliarini.
Donne dell'est e del sud del mondo adottate dalla Toscana
34 le donne straniere coinvolte nella ricerca, nata grazie a un progetto del Fondo sociale europeo che ha visto anche il coinvolgimento della Regione Toscana, e realizzata a partire dal settembre 2012. Età compresa tra i 20 e i 50 anni, le intervistate arrivano per lo più dai Paesi dell'Est (Romania, Albania, Ucraina), Africa settentrionale (Tunisia, Algeria, Marocco) e America latina (Colombia). Hanno differenti stati civili, lingue e religioni. E sono impiegate negli appalti Cooplat sui territori di Firenze (Soprintendenza, Gucci e Ospedale Palagi), Siena (Monte dei Paschi e Università degli studi) e Pisa (Scuola Superiore Sant'Anna, Scuola Normale Superiore). Alle interviste si è accompagnato in un secondo momento un laboratorio fotografico che ha chiesto alle lavoratrici di immortalare il loro posto di lavoro (una gallery in allegato).
“Abbiamo cofinanziato con grande interesse questa ricerca che ci mette sotto la lente – dice il presidente di Cooplat Fabrizio Frizzi – vista l'alta densità di stranieri tra la nostra forza lavoro e il nostro stesso corpo sociale. Comprendere e rispondere ai bisogni e alle necessità dei lavoratori, e in particolare di quelli stranieri che possono incontrare difficoltà con la lingua o nell'inserimento, è da sempre una nostra prerogativa. Mettere al centro la dignità del lavoro e il valore della persone contro la logica del profitto a tutti i costi significa anche combattere la crisi, solo così si incentiva la qualità professionale di ognuno”.
Le lavoratrici straniere sono quasi il 10%
Su 2.843 addetti in totale, di cui 1.475 soci, si contano in Cooplat circa 350 stranieri con una netta prevalenze di donne, ben 218. Tra quelle intervistate, l'assenza di opportunità lavorative nella terra d'origine risulta la molla principale che le ha convinte a partire. Approdate in Cooplat, il lavoro è adesso al primo posto nella vita di ognuna, anche a costo di qualche sacrificio personale. Alcune hanno titoli di studio elevati (diploma e laurea). Rivendicano la dignità del lavoro svolto quotidianamente, nonostante alcune rivelino di aver subito episodi di discriminazione per le loro mansioni di addette alle pulizie.
“Al di là delle differenti storie alle spalle di ognuna, ciò che oggi accomuna la maggior parte delle intervistate è il forte senso di appartenenza alla cooperativa, la consapevolezza – spiega la dottoressa Alessia Belli – di trovarsi in un ambiente che accoglie la loro voce e ne ascolta le esigenze. Molte, ad esempio, spiegano di aver ottenuto in caso di bisogno permessi più lunghi per raggiungere i loro familiari all'estero. Qualche problema ad inserirsi talvolta c'è stato, specie con le colleghe italiane. Ma in tante partecipano alla vita della cooperativa, alle riunioni, alle assemblee. La maggior parte parla di un'integrazione sul posto di lavoro che le ha aiutate a sentirsi a casa nel Paese in cui sono arrivate da migranti. Oggi, anzi, il timore è che la crisi economica possa allentare questa stretta relazione, il dialogo tra i dipendenti e l'azienda”.
Il lavoro? Raccontalo con uno scatto
Il laboratorio fotografico ha costituito la seconda tappa del percorso: sono stati condotti due focus group, uno a Firenze e uno a Pisa, in cui rispettivamente 8 e 5 donne, macchina fotografica alla mano, sono state invitate a descrivere con alcuni scatti il loro rapporto con il lavoro in Cooplat. Ne nasce una galleria realizzata in libertà con grande fantasia ed ironia: dalle bellezze del posto di lavoro come nei saloni degli Uffizi, al ringraziamento per una nuova lavatrice comprata dalla cooperativa che rende più facile la loro attività, fino alla giungla di chiavi e telefoni con cui hanno a che fare tutti i giorni, le amicizie e l’orgoglio di un lavoro ben fatto e al servizio della comunità.
La ricerca condotta dal Sant'Anna fa parte di un più ampio filone di indagine sulla forza lavoro straniera di Cooplat aperto nel 2010 dallo studio del Ceuriss “Lavoro e percorsi di integrazione del personale immigrato”. Tale ricerca, effettuata tra 400 lavoratori stranieri, mise in luce come il 77,8% dei lavoratori stranieri di Cooplat si senta italiano, tanto che solo un quarto parla ancora nella lingua d'origine. Oltre la metà (il 51%) dichiara di sentirsi “ben integrato” nel nostro Paese, mentre solo il 5% dice di continuare a coltivare un legame prioritario con la madrepatria. Tra le cose in cui si identificano di più, il nucleo familiare è al primo posto con il 68,9%, seguito subito dal lavoro, al secondo con il 45,9%. Mentre i riferimenti allo stile di vita e alla nazionalità vengono molto dopo (rispettivamente 27% e 24,6%).