Stefano Casini Benvenuti è direttore dell’Irpet, l’Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana fondato nel 1974. Fin dalle prime settimane della pandemia, Irpet ha attivato l’Osservatorio Covid-19, un think tank che studia gli effetti del contagio da coronavirus sul tessuto economico e sociale della Toscana. Lo abbiamo intervistato per parlare dello sviluppo futuro di Firenze.
Cambiare il “modello Firenze”: c’è davvero questa urgenza?
Cominciamo col definirlo questo “modello Firenze”, anche perché nell’immaginario collettivo viene raccontato in modo un po’ distorto. Si pensa subito al turismo. Prendiamo però l’economia fiorentina in senso ampio, allargata ai comuni circostanti, un sistema locale: il turismo conta per l’8%. Che è una quota importante, ma a Firenze c’è anche il manifatturiero, ci sono i servizi. Il “modello Firenze” è quello di un’economia urbana multisettoriale, non specializzata in una sola attività ma con presenza diffusa in molti settori.
Quali, ad esempio?
Due in particolare, che in questi anni hanno rappresentato un vero punto di forza per l’area. I dati dicono che Firenze è una delle città italiane cresciute di più negli ultimi dieci anni. Dieci anni di difficoltà, nati dalla crisi del 2008. Eppure Firenze ha retto meglio delle altre grazie soprattutto al farmaceutico, che ha avuto un boom sorprendente, e ovviamente alla moda. Hanno esportato volumi impressionanti mentre la domanda interna era in generale ferma. Chi ha avuto l’opportunità di stare sul mercato internazionale ha resistito. Quello di Firenze è quindi il modello di una città aperta, multisettoriale, aperta ai mercati internazionali. Ora questa crisi per l’appunto va a colpire proprio l’apertura internazionale, sia dal punto di vista delle merci – le esportazioni sono crollate – che della mobilità delle persone. Quello che era un pregio si è tramutato in un problema. Vale anche per il turismo.
E se gli effetti della pandemia durassero ancora a lungo?
Il punto è che c’è un pezzo di città, non esattamente un pezzo qualsiasi, che è monoculturale: il centro storico che vive solo di turismo. Le attività possono resistere per un po’, ma poi il rischio è la chiusura. Chi occuperà gli spazi rimasti vuoti? Possiamo vederla in positivo, come l’occasione per lanciare un modello alternativo di città che consenta di utilizzarli. Ma esiste uno scenario in negativo, che quegli spazi vengano acquistati da chi non ha un indirizzo preciso o che finiscano in mano a soggetti non per forza raccomandabili.
Si potrà almeno restituire il centro alla residenza come da tempo si dice di voler fare?
Francamente ho qualche dubbio. Il motivo per cui la gente se ne è andata dal centro di Firenze è che è difficile viverci. Il costo degli affitti e degli immobili è particolarmente elevato. Quando le città subiscono questo tipo di trasformazione non è poi facile riportarle indietro.
Allora che si fa? Si punta ancora sul turismo?
Non si deve abbandonare il turismo, si deve pensare a un turismo diverso. È sempre facile criticare un modello, più difficile immaginarne uno nuovo. Allora lancio un’idea visionaria: una città come la nostra ha il suo appeal internazionale nella cultura. Potrebbe essere un luogo di forte attrattività per la formazione di alta qualità sui temi che il mondo riconosce come propri di Firenze: la cultura, il restauro… Firenze e la Toscana producono alta qualità.
Perché non farlo anche nella formazione?
Chi viene a studiare è un turista, dal nostro punto di vista. Potrebbe occupare pezzi della città e gli studenti che ambirebbero a venire sono anche studenti ricchi. La Toscana trarrà sempre vantaggio dall’esistenza di una borghesia nel mondo, perché la borghesia vuole prodotti di alta qualità. Mi pare che le università si siano sempre un po’ chiuse rispetto a una possibilità come questa.
L’amministrazione Nardella ha lanciato l’idea di rigenerare le periferie a partire dalla creazione di quartieri tematici. Come la valuta?
Troppo spesso parlando di Firenze ci si dimentica delle periferie. Ma se il centro storico è di tutto il mondo, le periferie sono la Firenze che vivono i fiorentini. Certamente l’idea di ridare vitalità ai quartieri mi pare una buona idea. Vorrà dire approfittare anche di quanto il Recovery fund ci consentirà di fare, riqualificarli anche sotto l’aspetto ambientale. Le città sono una fonte rilevante di inquinamento e i fondi ci vengono dati per restaurare le case, efficientare l’uso dell’energia, realizzare i boschi urbani.
Gli effetti del coronavirus su Firenze (e le prospettive per il futuro)
Il modello Firenze è una storia di occasioni sfruttate o di sviluppo disomogeneo?
Una storia di scommesse vinte e scommesse perse. Lo sviluppo industriale è stata una scommessa vinta. Il mancato spostamento a nord-ovest del centro direzionale, su cui ci fu una lunga discussione, un’opportunità persa. Non c’è la controprova, svuotare ulteriormente il centro storico di alcune funzioni avrebbe potuto anche essere peggio. Ma di certo ha vanificato lo sviluppo di attività alternative. Confrontiamoci con qualcuno di simile a noi: Bologna. Vediamo che effettivamente c’è una differenza ed è nella presenza di servizi qualificati. Design, marketing, ingegneria, finanza. Funzioni che servono al mondo produttivo e che tipicamente si collocano nelle parti centrali della città.
A Firenze il turismo, e dunque la rendita e l’uso degli spazi per alberghi, ristoranti, bar e simili, ha impedito lo sviluppo di questi servizi. Bologna rispetto a Firenze ha certamente meno presenze turistiche e ha scelto di utilizzare così gli spazi a disposizione. Con due vantaggi. Dal lato della domanda di lavoro occupa professionisti, spesso giovani, per funzioni qualificate. Dal lato dell’offerta, le imprese trovano i servizi di cui hanno bisogno. Non è escluso che anche molte imprese toscane e fiorentine certi servizi qualificati se li vanno a comprare fuori. Ecco, se il turismo ha frenato un certo sviluppo della città può essere in questo senso.