Lasciò con un colpo modesto per uno come lui. Un tiro da 9.2 di punteggio con 6 decimi da rimontare su Sergey Kamenskiy che a quel punto aveva già l’oro appeso al collo. Come però a volte succede nello sport si sentiva, al di là dell’evidenza, che quella medaglia doveva andare a lui. Il russo sbagliò completamente il tiro e Niccolò Campriani vinse la sua terza medaglia d’oro olimpica diventando il più grande tiratore di sempre nel tiro di carabina. Sul tetto del mondo, non ancora 29enne, decise che si sarebbe dedicato ad altro. Oggi vive e lavora a Losanna, in Svizzera, al Comitato Olimpico Internazionale. Senza venir meno alla sua decisione, nella scorsa primavera è tornato su un campo di tiro puntando dritto ai Giochi di Tokyo 2020. Non per sé, ma per i tre giovani che ha deciso di allenare con la speranza di vederli entrare nella squadra olimpica dei rifugiati.
“È solo la tappa successiva del percorso naturale che ho fatto”, racconta. “Per quanto mi riguarda credo che la responsabilità dell’atleta di alto livello non finisca con l’ultimo colpo di un’Olimpiade o l’ultimo metro di una corsa. C’è qualcosa che va oltre”.
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Da sempre vicino alle iniziative dell’UNHCR, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha incontrato l’ufficio locale spiegando quello che aveva in mente. “L’idea era trovare un modo per sfruttare l’etichetta di campione olimpico a vantaggio di questo progetto. Che, è bene precisarlo, è un’iniziativa personale completamente volontaria, a budget zero, di cui mi occupo nel tempo libero”.
Dovevano essere due, un maschio e una femmina, perché l’equipaggiamento a disposizione è poco, l’allenatore uno solo e per farcela si deve tenere alta la qualità dell’allenamento. “Abbiamo fatto un giorno di selezione secca tra 12 persone scelte tra la comunità locale dei rifugiati a Losanna. Alla fine però ne ho scelti tre, un ragazzo e due ragazze”.
Chi sono?
Mahdi è un giovane afghano, e in caso di qualificazione rappresenterà il suo paese d’origine. Khaoula e Luna sono due ragazze inserite a tutti gli effetti nel programma di protezione per rifugiati, vengono una dal Medio Oriente e l’altra da un paese africano. Se riusciranno ad andare a Tokyo faranno parte della rappresentativa dei rifugiati. Nessuno di loro aveva esperienza di questo sport, quello del marzo scorso è stato il loro primo allenamento di sempre.
Eppure il tiro a segno è forse lo sport più stressante per la mente. Come hanno fatto, con il vissuto che hanno, ad abbracciare questa disciplina?
Dico sempre che se la meditazione fosse uno sport, sarebbe il tiro a segno. Per arrivare al risultato bisogna dimenticare il passato e il futuro, accettare l’emotività, imparare a gestirla. È un duro lavoro. Loro hanno un passato sicuramente faticoso alle spalle e quindi una tendenza quasi ossessiva a tirare fuori le emozioni negative. Stanno imparando a controllare questo interruttore: concentrarsi sull’attimo presente, sulla respirazione. Mettere da parte problemi, paure, dubbi e ricordi. Pensare solo al gesto. È uno skillset che credo sarà utile a questi ragazzi al di là dello sport. Sono loro i primi a dirlo, le tre ore dell’allenamento sono momenti di pace.
Se la meditazione fosse uno sport, sarebbe il tiro a segno.
Con lo sport hanno un’occasione per ritrovare il loro posto nel mondo, la loro identità. E forse, ora che si è ritirato dalle gare, è così anche per lei?
Con le debite proporzioni, il nostro è un percorso simile. Come un rifugiato si trova a dover fare i conti con una profonda ridefinizione di sé, così un ex atleta di alto livello, dopo che ha chiuso la sua carriera, deve ricostruire il suo mondo, la visione che gli altri hanno di lui. Per me è anche un modo per dare un senso ai sedici anni passati a mirare un bersaglio. Già prima di partire per Rio avevo deciso in modo molto chiaro che la mia carriera sarebbe finita lì, con quella Olimpiade. Oggi ho trovato un modo per far pace col mio sport. Sono tornato a tirare: devo farlo per essere un buon tecnico, devo richiamare certe sensazioni. Mi alleno insieme al gruppo una volta a settimana ed è solo grazie a questo progetto.
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Come vi allenate?
Ho attivato il mio network, che poi è lo stesso di tutti i campioni olimpici: conoscenze, tiratori, tecnici, federazioni. Trattandosi, ripeto, di un’iniziativa completamente volontaria e senza budget, avevamo bisogno di contributi, donazioni ed equipaggiamento. Oggi ci alleniamo in un centro per il tiro con l’arco gestito da un’ex campione di Barcellona 1992, e ci aiuta la fondazione di Abhinav Bindra, primo oro olimpico indiano di sempre e mio ex avversario. Tre ragazzi di paesi diversi, nella struttura di uno spagnolo, sostenuti da un indiano e allenati da un italiano. Questa è la forza della comunità olimpica.
Il successo di questo progetto si misurerà nell’eredità che lascia.
Mi auguro che ci permetta di ispirare il prossimo campione olimpico a fare la stessa cosa
Con quali obiettivi?
Stando alla definizione precisa, i Giochi olimpici sono i 17 giorni in cui i riflettori si accendono, mentre l’Olimpiade è il quadriennio che precede l’evento. La parte più bella. Siamo concentrati su questa. Intanto vogliamo centrare il risultato minimo per la qualificazione olimpica, che non implica automaticamente la partecipazione ma almeno apre la possibilità. Ci alleniamo in maniera estremamente seria perché a Tokyo vogliamo esserci. Consapevoli però di quanto sarà difficile. Su questo sono molto chiaro con i ragazzi: voglio che sappiano che non devono mettere in standby la propria vita fuori dal campo di allenamento.
Tre ragazzi di paesi diversi, nella struttura di uno spagnolo, sostenuti da un indiano e allenati da un italiano. Questa è la forza della comunità olimpica.
Il successo di questo progetto, comunque, si misurerà nell’eredità che lascia. È più un mezzo per un fine, mi auguro che ci permetta di ispirare il prossimo campione olimpico, non per forza del mio sport, a fare la stessa cosa.
Tokyo sarà la seconda edizione dei Giochi con una squadra olimpica di rifugiati a rappresentare i 70,8 milioni di persone fuggite dal proprio paese a causa di persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani. Quale futuro si augura per Team Refugees?
Io ho sempre rappresentato orgogliosamente l’Italia. Ma ho sempre vissuto in due famiglie: quella della delegazione azzurra e quella della mia disciplina, con atleti di tutto il mondo. Ho molte più cose in comune con il tiratore russo di turno che con una persona all’apparenza a me più vicina. Ero bravo a tirare in piedi, ma ho imparato dagli americani a farlo nella posizione a terra e dai giapponesi in ginocchio. Queste comunità sono la forza dello sport. Mi auguro che ci siano sempre più occasioni di incontro e che la delegazione dei rifugiati arrivi alla piena integrazione, potendo partecipare anche ai training camp internazionali.