È successo qui, lungo le strade di Firenze: il tempo ne ha lavato via i segni ma per riscoprirne la memoria basta arrampicarsi appena un ramo più in alto sull’albero genealogico. Laura Piccioli, fiorentina, 35 anni, collaboratrice di lunga data de Il Reporter, si è fatta carico di questa eredità. A ottobre è stata eletta presidente della sezione di Firenze dell’Aned, l’associazione nazionale degli ex deportati, per continuare a testimoniare la storia dello zio Mario.
“Era il 7 marzo del 1944”, racconta. “Aveva 17 anni, abitava con i genitori e il fratello a San Frediano, lavorava in una pizzicheria del quartiere. La sera prima sua madre non era tornata a casa. C’era stato uno sciopero alla Cartiera Cini dove lei lavorava e girava voce che gli operai erano detenuti alle Scuole Leopoldine. Lui esce di casa per cercarla. All’ingresso trova due carabinieri che non lo fanno entrare, viene allontanato ma poco dopo un fascista in borghese lo raggiunge e gli dice di seguirlo all’interno delle Scuole. Lì vede la mamma: ancora non sa che potrà vederla di nuovo solo 15 mesi dopo”.
Da Firenze a Mauthausen, la storia di Mario Piccioli
L’8 marzo Mario viene caricato su un convoglio in partenza dalla stazione di Santa Maria Novella. “Un carro bestiame chiuso col filo spinato. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, ma tutto sommato era tranquillo, sapeva di non aver fatto niente di male”. Arriva a Mauthausen dopo un viaggio da incubo durato quattro giorni, chiusi nel vagone senza un bagno, senza mangiare. Dalla stazione al campo di concentramento sono cinque chilometri.
“Attraversano a piedi la cittadina, che a mio zio rimane impressa: un paese fantasma,
spettrale, nessuno per le strade, nessuno alla finestra. Eppure era abitato”. Arrivato al campo viene spogliato, rasato e disinfettato “da tre delinguenti: li ha sempre chiamati così, con la «g». Gli danno un paio di mutande e una camicia usata. Gli indicano una montagna di zoccoli di legno, i deportati dovevano prenderne un paio il più in fretta possibile. Senza provarli, quindi era facile ritrovarsi con due scarpe destre o due numeri diversi. Per lui fu il primo forte trauma”.
I mesi nei campi di concentramento
Poi la divisa col triangolo rosso dei deportati politici e un numero, 57344. Dovrà presto imparare a conoscerlo. “Venivano fatti appelli infiniti in tedesco, due o tre volte al giorno. Le SS chiamavano il tuo numero, se non rispondevi venivi massacrato di botte. Mi diceva «non so come ho fatto a impararlo» ma poi non lo ha più dimenticato, continuando a pronunciarlo in un modo che era anche buffo da sentire”. Qualche tempo dopo Mario viene
trasferito ad Ebensee, un sottocampo di Mauthausen all’epoca ancora in costruzione.
“Gli chiedevo sempre: «come hai fatto a salvarti?». La sua risposta è sempre stata la stessa: «ho avuto fortuna»”. La fortuna, ad Ebensee, ha le sembianze di una malattia
“falsificata” che ti concede qualche giorno di isolamento in infermeria. O quelle di un
nazista – si fa per dire – compassionevole: “Una volta doveva spingere una carriola
carica. Un ufficiale delle SS gli urlava di fare in fretta. Lui si gira e fa segno di non farcela, di essere esausto. I militari avevano con sé dei cani addestrati a fare due cose. La prima, afferrarti alla caviglia e trascinarti a terra. La seconda, mordere alla gola per uccidere. Il nazista glielo aizza contro, il cane prende mio zio alla caviglia e lo getta a terra. Poco dopo però il soldato richiama il cane in un atto inatteso di pietà che, di fatto, lo risparmiò”.
L’anno della Liberazione e lungo viaggio di ritorno
Viene liberato il 5 maggio del 1945 dagli americani. La solita fortuna, o l’istinto di sopravvivenza, lo riportano a Firenze, prima con un viaggio in treno, sempre in un vagone per il bestiame ma in direzione contraria, stavolta senza filo spinato. Scende a Bolzano,
da lì prosegue su un camion fino a Forlì e poi in autostop. Arriva a Firenze quasi un
mese dopo. Mario era un ragazzo alto più di un metro e ottanta. Quando arriva pesa
31 chili.
“Torna a casa e racconta cosa gli è successo, ma nessuno gli crede. Erano storie oltre l’immaginabile, talmente disumane da risultare incredibili”. Lui, come molti altri deportati, si chiude nel silenzio e per molti anni dovrà sopportare da solo anche la condanna del ricordo. Fino agli anni Sessanta, quando con le fotografie e i filmati degli americani comincia una presa di coscienza collettiva su cosa siano stati i campi di sterminio. “È allora che inizia anche il suo percorso all’interno dell’Aned, gli incontri nelle scuole e come accompagnatore degli studenti nei viaggi della memoria ai campi di concentramento. Ha portato la sua testimonianza fin quando ha potuto, poco prima della morte”.
Firenze e la memoria della deportazione: “La radice del male esiste ancora oggi”
Ora tocca a chi resta. “È un problema che mi pongo. Mio zio è morto nell’agosto 2010, io sono entrata nell’associazione a settembre. L’ho fatto anche per un senso di dovere. La mia è l’ultima generazione che ha avuto una relazione diretta con queste storie, i ragazzi di oggi non ce l’hanno. Quando vado nelle scuole a parlare della deportazione
ne restano turbati. Gli studenti che partecipano ai viaggi della memoria cambiano. Ma, nonostante tutto, lo sentono come un qualcosa di estremamente lontano da loro.
Questo è il punto: far capire da cosa è nato, che la radice del male è la stessa ed esiste
ancora oggi. Le immagini che arrivano dalla Bosnia, dai campi di Lipa, con ragazzi
che camminano in ciabatte sulla neve, in qualche modo mi hanno riportato ai racconti
dello zio con i suoi zoccoli sulla neve. Sono circostanze diverse ma non dobbiamo
ignorarle”. Né dimenticare che il male, ottant’anni fa, era sul portone di casa nostra.
I progetti di Aned Firenze per la memoria
“Stiamo lavorando alla creazione di alcuni percorsi della memoria in giro per Firenze. Degli itinerari guidati, in collaborazione con altre associazioni, per raccontare la storia della deportazione direttamente nei luoghi in cui è nata. La casa dove abitava l’ex deportato, il posto in cui è stato preso. Ce ne sono tanti. Un conto è dire che c’è stata la deportazione. Un altro dire che è successa a questa persona, proprio davanti a casa tua”.