Se è vero, come affermò Schopenhauer, che “il destino mescola le carte e noi giochiamo” allora, in occasione nel Nabucco, Verdi giocò benissimo la sua mano fortunata. Siamo all’incirca nel 1840 quando l’impresario Bartolomeo Merelli propone a Giuseppe Verdi di musicare il libretto di Temistocle Solera già rifiutato dal prussiano Otto Nicolai che lo trovava troppo pieno “di rabbia, spargimenti di sangue e maledizioni”.
Pare che nemmeno il compositore di Busseto fosse molto propenso a musicare il Nabucco, o Nabuccodonosor come era originariamente intitolata l’opera. Verdi veniva infatti da un periodo a dir poco difficile. Se sul piano professionale le cose andavano male – la sua ultima opera, Un giorno di regno, era stata un clamoroso fiasco – su quello familiare la situazione era davvero tragica: in tre anni aveva perso la prima moglie e i due figli. Non sorprende quindi che il compositore avesse quasi deciso di lasciare l’opera. Ma Merelli riuscì in qualche modo a convincerlo e il 9 marzo 1842, al Teatro alla Scala di Milano andò in scena per la prima volta il Nabucco. Il resto è storia: l’opera ottenne un enorme successo, di fatto il primo di una lunga serie, Verdi salì alla ribalta nel panorama dei compositori lirici europei e conobbe la sua futura seconda moglie, Giuseppina Strepponi, che interpretava Abigaille in quella prima milanese.
Nabucco, ambientato nel periodo storico di schiavitù del popolo Ebraico in terra Babilonese, racconta la storia d’amore e di gelosia tra le figlie del re assiro, Fenena e Abigaille, entrambe innamorate dell’ebreo Ismaele. Fa da contraltare al contrasto tra le sorelle il contrasto tra religioni, in una sorta di lotta tra il bene e male. Da una parte troviamo la fede nell’unico Dio degli ebrei e dall’altra la fede nella divinità pagana Belo. Avrà la meglio il Dio degli ebrei: Nabucco e Fenena si convertiranno al giudaismo mentre l’usurpatrice Abigalille, sconfitta, si toglierà la vita.
Non sono sicura però che questo sia un lieto fine. “D’Abigaille mal conoscete il core”, recita il libretto, ed è vero. Il personaggio della donna che si crede figlia di Nabucco e che scopre di essere invece una schiava, è complesso. Non c’è solo la sete di potere, come si potrebbe pensare ad una prima e veloce lettura, c’è sopratutto la voglia di affermarsi come individuo, la volontà di dimostrare il proprio valore nonostante i continui ripudi. Quando muore Abagaille muore l’unico personaggio che non piange, che non si lamenta, che non si redime. In fondo, l’unico personaggio che tenta di rendersi artefice con l’azione e il coraggio del proprio destino senza invocare un provvidenziale intervento divino.
La rappresentazione fiorentina
Il Maggio Musicale ripropone l’allestimento del Teatro lirico di Cagliari già apprezzato a Firenze nella stagione 2014. Le scene di Tiziano Santi, la regia di Leo Muscato, i costumi di Silvia Aymonio e le luci di Alessandro Verrazzi astraggono dal proposito di fedeltà storica ma sono in grado di rendere immediatamente riconoscibili gli assiri conquistatori e gli ebrei conquistati, nonostante le restrizioni imposte ai movimenti e al cambio costumi dalle norme di sicurezza anti Covid. L’azione si svolge in una sorta di scatola vuota che, attraverso lo spostamento di pannelli dalle sembianze della pietra, diventa l’interno del tempio di Gerusalemme, la reggia di Babilonia, le sponde dell’Eufrate.
Il cast di prim’ordine in scena in questi giorni non ha deluso le aspettative del pubblico fiorentino. Il ruolo impervio di Abigaille è stato affidato a María José Siri, che a Firenze abbiamo già ascoltato ne Il tabarro e in Suor Angelica di Puccini, ma che era al debutto in questa parte. Il soprano uruguaiano ha affrontato con piglio il suo personaggio guerresco e quasi maschile riuscendo allo stesso tempo ad esaltare i momenti più intimi della partitura.
Il basso russo Alexander Vinogradov interpreta uno Zaccaria particolarmente incisivo grazie a un imponente mezzo vocale. Nel ruolo di Ismaele, Fabio Sartori, specialista del repertorio verdiano, si mette in mostra nonostante la parte scritta da Verdi non regali al tenore un ruolo da vero protagonista. Lo stesso si può dire della giovane Caterina Piva nel ruolo di Fenena.
La vera star del cartellone è però l’intramontabile Plácido Domingo, che nonostante l’età – 80 anni il prossimo gennaio – calca ancora i palcoscenici lirici interpretando oramai quasi esclusivamente ruoli da baritono. È il caso di questa produzione fiorentina, nella quale è il re assiro Nabucco. Nonostante la comprensibile e attesa fatica mostrata in alcuni passaggi, la prova dell’ex tenore madrileno è quella del grande artista, fatta di un’incisiva presenza scenica, di grande eleganza nel fraseggio e di una sorprendente proiezione del suono nei passaggi più delicati della parte.
Infine è d’obbligo ricordare tra gli interpreti principali il coro, che in Nabucco riveste un ruolo di prim’ordine, e che ha reso quest’opera universalmente famosa. Il Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretto da Lorenzo Fratini ci ha abituato negli anni a un standard di altissima qualità e per questo alcune volte si tende, sbagliando, a dare per scontate le sue ottime prove, sempre convincenti e senza sbavature anche in occasioni impegnative come questa.
Non convince invece appieno la direzione di Paolo Carignani che nonostante riesca a imprimere alle parti più movimentate della partitura il giusto carattere marziale senza scadere, come purtroppo spesso accade, nelle sonorità bandistiche, pecca di mancanza di pathos nelle parti più liriche come nel coro del “Va, pensiero”.
Le impressioni del pubblico della galleria
In occasione della prima di questo Nabucco il teatro fiorentino ha fatto registrare un tutto esaurito, di quelli consentiti ai tempi del Covid, probabilmente sia grazie al titolo, sempre apprezzato dal pubblico, sia grazie alla presenza di Domingo che mancava a Firenze da 49 anni.
Il pubblico della galleria ha apprezzato, come sei anni fa, l’allestimento e ha accolto, giustamente, con calorosi applausi il coro, María José Siri, Alexander Vinogradov, Fabio Sartori e Caterina Piva. Quasi unanimi, ma non troppo positivi, invece i giudizi sulla direzione.
Gli storici abbonati si sono invece divisi sulla prova di Domingo. Dopotutto alcuni frequentano il teatro fiorentino, e cito letteralmente, da “quanto la Callas era sovrappeso” e probabilmente hanno ancora negli orecchi il Domingo tenore e interprete di Calaf in Turandot. Ovviamente le prove non sono confrontabili e sopratutto si sono dimenticati che, in tempi non troppo lontani, avrebbero considerato una prova come quella offerta stasera da Plácido Domingo a quasi 80 anni l’unica cosa da salvare in alcune rappresentazioni altrimenti da dimenticare.
Infine, una prece: è ormai diventata una consuetudine chiedere e, purtroppo ottenere, il bis del “Va, pensiero” nel mezzo della rappresentazione e a prescindere da come sia stato cantato e suonato. Smettiamo. Il coro del “Va, pensiero” è già stato troppo abusato.
Si replica mercoledì 7 ottobre e martedì 13 alle 20.00 e sabato 10 alle 15.30.