venerdì, 13 Dicembre 2024
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Adozioni, strada lunga e costosa

Non si cercano figli per una coppia, ma la famiglia adatta per quel bambino: è questa la “filosofia dell’adozione” che anima chi lavora quotidianamente in questo campo e che ogni giorno si trova davanti storie e situazioni di abbandono

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Non ci sono regole precise che possono identificare il bravo genitore, ci sono solo linee generali che permettono agli psicologi e agli assistenti sociali di capire se un bambino potrà avere una vita serena con quella determinata coppia. La legge però deve stabilire delle regole e, per questo, chi vuole adottare un bambino deve avere alcuni requisiti: innanzitutto i futuri genitori devono essere sposati da almeno tre anni, devono avere minimo 18 anni e massimo 45 anni un coniuge, 55 l’altro, in più del bambino adottato.

Ciò vuol dire che se la futura madre ha 47 anni ed il futuro padre 56, la coppia può adottare un bambino non più piccolo di 2 anni. Questi sono i criteri di idoneità minimi necessari sia per adozioni nazionali che internazionali, ma per queste ultime, poiché l’abbinamento con il bambino adottabile è deciso dall’Autorità straniera, le regole sono più rigide: spesso infatti è richiesto anche il possesso della casa.

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Infine, gli aspiranti genitori adottivi devono essere idonei ad educare e istruire, ed in grado di mantenere i minori che intendono adottare. Per questo occorre una valutazione più complessa del rapporto di coppia, che spetta ai Tribunali dei minori. La prima tappa per chi desideri adottare un bambino straniero è proprio qui, in tribunale: all’ufficio di cancelleria civile, la coppia dovrà presentare la “dichiarazione di disponibilità” all’adozione internazionale. Se è tutto in regola, inizia il percorso per ottenere l’idoneità. I servizi degli Enti locali hanno il ruolo importante di conoscere la coppia e di valutarne le potenzialità genitoriali, raccogliendo informazioni sulla loro storia personale, familiare e sociale. Obbiettivo di questo lavoro è stendere una relazione da inviare al Tribunale, che fornirà al giudice gli elementi di valutazione sulla richiesta della coppia. Dopodiché, entro 2 mesi, il Tribunale convocherà i coniugi e potrà, se opportuno, disporre ulteriori approfondimenti.

A questo punto il giudice deciderà se emettere un decreto di idoneità che una volta rilasciato, verrà inviato alla Commissione per le adozioni internazionali. La coppia in possesso dell’idoneità potrà iniziare, entro un anno dal rilascio della stessa, la procedura d’adozione rivolgendosi ad uno degli enti autorizzati ed è proprio in questa fase che i due futuri genitori potranno orientarsi verso un paese tra quelli nei quali opera la struttura.

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L’ente, una volta ricevuta dall’autorità straniera la proposta di incontro con il bambino da adottare, informerà la coppia e li assisterà svolgendo tutte le pratiche necessarie. Se gli incontri si concludono con un parere positivo anche da parte delle autorità del paese straniero, l’ente trasmetterà gli atti e le relazioni sull’abbinamento adottando-adottanti alla Commissione per le adozioni internazionali in Italia, attestando la sussistenza dei requisiti previsti dalla Convenzione de L’Aja, e autorizzerà l’ingresso e la permanenza del minore nel nostro paese.

Dopo che il bambino è entrato in Italia, e trascorso l’eventuale periodo di affidamento preadottivo, la procedura si concluderà con l’ordine, da parte del Tribunale per i minorenni, di trascrizione del provvedimento di adozione nei registri dello stato civile.

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Con questo passaggio il bambino diventerà definitivamente un cittadino italiano e un membro a tutti gli effetti della nuova famiglia multi-etnica. Riuscire a valutare i tempi di adozione è molto difficile: il percorso italiano è ben delineato, ma quando entrano in ballo le autorità straniere le attese si possono allungare. Per quanto riguarda i costi, la coppia deve tenere conto di due fattori: il fronte italiano, dove le cifre richieste sono ben determinate e dipendono dall’Ente individuato, e quello straniero, dove il contributo cambia a secondo del paese prescelto.

L’ente, infatti, ha un referente all’estero che deve stipendiare e quindi ha bisogno di un supporto economico. A tutte queste voci ci va ovviamente aggiunto il fatto che gli incontri tra adottato e adottante si tengono nel paese di origine del bambino, e di conseguenza la coppia deve mettere in conto anche le spese dei vari viaggi. Per fare qualche esempio: adottare un bambino indiano con il Ciai, il Centro Italiano Aiuti all’Infanzia, costa indicativamente 14mila euro (costi per i sevizi resi in Italia alle coppie 3.500 euro, per i servizi resi in India 6mila euro, spese viaggio e alloggio 4mila euro), mentre per adottare un bambino in Albania con l’Aibi, l’organizzazione Aiuti per i Bambini, si spende indicativamente 12.500 euro (costi per i sevizi in Italia 3.500 euro, in Albania 5.700 euro, spese viaggio e alloggio, l’Albania richiede tre viaggi, 3.500 euro).

 

“Io, abbandonato e adottato (due volte)”

La sua lingua adesso se non se la ricorda più: è un pezzo che non prova nemmeno a ripescarla in qualche cassetto della memoria. Diciamo che parla un bel livornese aperto, mezzo pisano, una cosa strana. E che se lo incontri, non ti viene nemmeno in mente che la sua sia la storia di un bimbo adottato, nato e vissuto in Romania fino a quando aveva dieci anni. Qui sotto sono i genitori a parlare, a raccontare cosa vuol dire adottare un bimbo. Questa pagina invece se la prende lui, un lui che chiamiamo Giovanni per non farci troppo gli affari degli altri. Ha diciannove anni, adesso vive in provincia di Pisa. Ma la sua storia è passata anche da Firenze: una tappa breve e sicuramente dolorosa. Perché Giovanni ha vissuto una doppia adozione, chiamiamola così. È arrivato in Italia, quando aveva dieci anni, dall’orfanotrofio di una piccola città vicino a Costanza, grazie ad un’adozione internazionale voluta da una famiglia fiorentina. Pesava 27 chili, se lo ricorda ancora: “L’orfanotrofio, come ci si può immaginare, non era un bel posto – racconta – io mi ricordo ancora dei pasti a base di spaghetti cotti nel latte, oppure la polenta”. E insieme a questo, altri ricordi in bianco e nero: “Eravamo in tanti, e non mi dimentico delle violenze subite, qualcosa di simile ad atti di bullismo da parte dei ragazzini più grandi”. E lasciato alle spalle (si fa per dire) tutto questo, Giovanni è arrivato in Italia. Un mese per iniziare a parlare le prime parole di italiano, sei mesi di idillio con la nuova famiglia. Solo che poi le cose non sono andate come dovevano: “C’erano dei problemi – spiega – delle difficoltà ad accettarmi, probabilmente. E così il Tribunale decise di non confermare l’adozione, dopo due anni di affido”.

E per Giovanni, dopo due anni passati con questa nuova famiglia, si aprì un processo all’inverso, una cosa che fortunamente non capita spesso. Dall’orfanotrofio ad una casa vera, da una casa vera a una casa-famiglia. A Brozzi, nella casa di accoglienza San Giorgio. Un posto dove ha passato un altro anno: un posto che somigliava a una casa, ma che casa non era. Difficile capire, da fuori, che spiegazione si possa dare un bambino di un’esperienza del genere, di qualcosa che somiglia a un doppio abbandono, di uno sballottamento da un posto all’altro in attesa di mettere le radici da qualche parte: “Nella casa famiglia mi trovavo bene – ricorda – anche se il primo impatto fu difficile. Mi è servita molto come esperienza, a riguardare indietro. Mi ha insegnato a cavarmela, mi ha reso più forte. E credevo che ormai il mio destino sarebbe stato di rimanere lì fino ai 18 anni”.

Sbagliato. Un bel giorno è arrivata un’altra famiglia, a bussare in cerca di Giovanni: “In verità all’inizio non ne volevo neanche sentir parlare, dopo l’esperienza fatta con la prima famiglia – racconta –. Poi il prete che ci seguiva nella Casa mi convinse dicendomi che poteva essere l’ultima opportunità per non finire in strada a 18 anni”. E cosi è stato. Giovanni è stato adottato dalla nuova famiglia, e ora il resto è un fardello di ricordi pesanti, ma almeno allontanati. “A volte ci penso, e mi resta il desiderio – spiega – di incontrare mio fratello, che era all’orfanotrofio con me. Mi piacerebbe ritrovarlo e anche conoscere la mamma. Magari prima o poi ci riuscirò”. Intanto però un lieto fine c’è già, una nota tenera dopo tanto buio. Arrossisce Giovanni: “Sì, mi sono fidanzato. E la mia ragazza viene dalla Romania come me, ed è stata adottata da una famiglia italiana quand’era piccola”.

 

Cosa dice la legge
Primo obiettivo: sconfiggere il traffico di minori


La Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993 sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, è il principale strumento per garantire i diritti dei bambini e allo stesso tempo i diritti di chi desidera adottarli. Il primo obbiettivo è sconfiggere qualsiasi traffico di minori. L’Italia ha aderito a questo patto, insieme a molti altri paesi, con la legge 476 del 31 dicembre 1998. La legge ha reso obbligatorio l’intervento dell’ente autorizzato in tutte le procedure di adozione internazionale, modificando la precedente disciplina che permetteva, invece, di rivolgersi anche direttamente alle autorità straniere. Queste organizzazioni sono soggetti alla vigilanza della Commissione, che può revocare l’autorizzazione. Il 31 ottobre 2000 è stato pubblicato il primo albo degli enti autorizzati, che viene aggiornato sul sito www.commissioneadozioni.it.

Due genitori raccontano
“I bambini non sono tuoi ma poi ti somigliano”

Chiara e Francesco, i nomi sono di fantasia, ma la loro storia è verissima e racconta di una doppia adozione: una bimba dell’est e un neonato italiano. “All’inizio eravamo un po’ perplessi all’idea di adottare un bambino. Avevamo qualche timore, la paura di non sentirlo nostro, poi ci siamo convinti, anche grazie ad un corso di formazione organizzato dall’Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie”. E si sono convinti talmente tanto che hanno fatto “il bis”. Prima, nel 2004, hanno adottato una bimba dell’est europeo: “Ci sono voluti, in tutto 3 anni”. Poi, l’anno successivo, hanno adottato un neonato italiano: “Era stato abbandonato dalla mamma, e il Tribunale ci chiamò immediatamente”. E adesso? “Adesso dobbiamo pensarci per ricordarci che sono adottati! E come spesso accade, questi bambini hanno finito per somigliarci”.

 
La storia di un padre “adottante”
“L’adozione? Per me è prima di tutto un valore”

“Per me l’adozione è prima di tutto un valore, qualcosa di meraviglioso che consente di donare una famiglia”. Marco (anche qui il nome è di fantasia) la sua esperienza di “babbo adottivo” la commenta così. Lui e sua moglie, tanti anni fa, hanno adottato una bimba dalla Bulgaria: “Ci sono voluti in tutto tre anni, e ci sentiamo già fortunati perché forse oggi ce ne sarebbero voluti ancora di più”. Quando l’hanno presa con loro, la loro bambina aveva due anni e mezzo: “Dopo non le abbiamo mai nascosto la sua storia, ne abbiamo sempre parlato liberamente, già da quand’era piccola spiegandogliela come una favola. È cresciuta con una sorella, nostra figlia biologica, esattamente come io sono cresciuto con mio fratello. E ad una cosa la abbiamo sempre educata: a non odiare, mai, nemmeno per un momento, chi l’aveva abbandonata”.

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