Come vu’ parlahe? Il fiorentino ieri e oggi
“Ma indo’ tu s’è andaho?”. “Icché si fa stasera? Siee, chello gli è grullo”. C’è poco da fare, è proprio buffa la parlata fiorentina. Per chi la ascolta, e a Firenze non ci è nato, riesce ad avere sfumature comiche anche in bocca ad una persona seria impegnata in un discorso altrettanto serio. E alzi la mano chi non è mai stato preso in giro per le sue “c” aspirate da un forestiero che provava goffamente a fargli il verso, riuscendoci poco e male, perché la gorgia (ovvero ciò che rende “antiphathiho” un “antipatico”) fa parte del dna del capoluogo tanto quanto l’Arno o il Battistero.
Eppure, passa il tempo, passa l’acqua sotto i ponti, e la parlata fiorentina è cambiata pure lei. Si è tenuta i suoi tratti distintivi, per cui grandi e piccini continuano a essere convinti che “quell’omo se n’è andaho di hasa”, ma certe parole le ha perse per strada. Per esempio: quale giovane fanciullo fiorentino dirà mai alla sua mamma “Non mi aspettate per cena, vado a desinare da McDonald?”. Oppure: quale adolescente entrerà più in un negozio del centro per chiedere a una commessa se ha la taglia 42 di quella camiciola? Ancora: che faccia farerebbe un ragazzo se si sentisse chiedere da un ortolano anziano se, oltre alle zucchine, vuole anche un po’ di petonciani? Mica lo sa lui che questi “petonciani” sono le melanzane. Vagli poi a spiegare che il migliaccio è il castagnaccio e che il quartiere è l’appartamento e non la zona dove abita.
Insomma, cambia tutto, anche in bocca ai fiorentini. Anche se c’è ancora un esercito di signori dai capelli bianchi che questo patrimonio linguistico non lo ha perso. Loro fanno la spesa e comprano il ramerino, sopra gli spaghetti ci mettono il cacio, la casa la puliscono con la granata e il bastone (leggi spazzolone), e i piatti li lavano nell’acquaio. I giovani invece hanno altri grilli per la testa. Se a scuola c’è l’ora di educazione fisica si mettono il toni. Se alla prima ora interroga la professoressa severa allora piglia male, se il sabato sera bevono troppo rischiano di strippare, e forse è bene che i nonni non sappiano cosa intendono esattamente i loro nipotini con questo termine.
Ma lessico e giochini a parte, cosa sta cambiando nel fiorentino? “È cambiato, certamente, come cambiano tutte le lingue – spiega il professor Leonardo Savoia, docente di Linguistica Generale all’Università di Firenze –. Oggi ad esempio è molto meno marcata la differenza tra il fiorentino rustico e quello della città. Sul fiorentino dei giovani poi c’è una forte pressione dell’italiano standard, per cui forme come “vo” “fo” sentono la concorrenza di “vado”, “faccio”. Ma non è che col passare del tempo si rischia di perdere anche la preziosa gorgia? “Per ora non è in calo, anche se tante persone tendono ad usare una pronuncia standard, spesso sfugge comunque dal controllo del parlante – rassicura il professore –. Anzi, si assiste ad un’espansione geografica del fenomeno, per cui capita di sentire dire parole come “andaho”, molto forti fra i giovani, anche in altre zone della Toscana”.
“Così è cambiata la lingua di Boccaccio”
Bei tempi. Quelli del fiorentino “docche” (doc, insomma). Quelli che si ricordano i nonni di Firenze e che ormai sono andati. “Con tutto icché c’è ora, siamo tutti mescolati. Nell’autobus si trovano gialli, neri, verdi…”, dice una signora ben vestita e con un filo di rossetto, il suo nome preferisce non dirlo: sono le 10 e scappa al mercato. Sono loro, gli anziani, che tengono vive le sfumature del fiorentino d’antan: parlando seduti nelle panchine, nelle piazzette e nei parchi, magari con i loro nipotini accanto.
Ma com’era questo fiorentino che sta sparendo, o comunque irrimediabilmente cambiando? “Sboccato, alla Boccaccio, ma non per forza offensivo. Prendiamo una parola come “bischeraccio”, che era detta con simpatia. Oggi non si usano più o comunque molto meno”, racconta il signor Franco, che è nato e vissuto proprio a San Lorenzo, zona mercato centrale, il cuore di Firenze. Un modo di parlare volgare che fa sorridere: “Si diceva merdaiolo, bucaiolo. Le gemelle che stanno accanto a casa mia però continuano a dirle queste parole. E quando le sento mi ritornano in mente, altrimenti forse le avrei dimenticate”, dice Adriana, 70 anni. “Le mie figlie invece ora dicono “stronzo”, “non mi frega un cazzo”, e a me non piacciono queste espressioni”, aggiunge la sua amica Anna, che di anni ne ha 74 e quando pronuncia le “nuove parolacce” abbassa il tono di voce e quasi si sente in colpa a pronunciarle.
Ci sono parole che ormai sono scomparse dall’uso corrente, sostituite da quelle utilizzate dalle nuove generazioni. Prova a ricordarle il signor Plinio, 73 anni, anche se è difficile farle venire in mente: “Pastrano non lo dice più nessuno. È il cappotto, ora magari si dice ‘giacchetto’ oppure ‘giacca’. Poi la porta veniva chiamata ‘l’uscio’ e la bottiglia ‘la boccia’”. Questo fiorentino è quello che hanno imparato dai loro nonni, che avevano vissuto nel 1800. Era facile impararlo. Oggi per i loro nipoti lo è molto meno. “Sono più strettini di noi: parlano correttamente l’italiano e non il fiorentino. Perché vanno a scuola, guardano la televisione, leggono e stanno con gente di fuori. Quando ero piccolo io, a scuola eravamo tutti nati a Firenze”, dice Lorenzo, 67 anni, che il suo fiorentino l’ha imparato fra le vie di San Frediano.
È anche il tono che non è più quello di una volta: “Prima – continua – si diceva “andaaaho” con una bella a prolungata. Poi c’era anche ‘veniiiiio’”. E ancora, racconta Lido, 82 anni, si diceva ‘mi casa’ e ‘mi carne’: “Ora al limite quando vado dal macellaio gli chiedo ‘la ciccia’, e non più un etto come allora”. Ma si scoprono anche le influenze delle altre lingue, tipo stranamente il francese: “Liscit era la latrina, il gabinetto insomma”, cerca di spiegare Plinio.
Il tempo passa e quasi non ci fanno più caso a come cambia anche la lingua. “Noi continuiamo a dirle tutte, queste parole, ma non ci accorgiamo se sono delle parole che non si usano più”, spiega Renzo, che tutti gli amici prendono in giro “perché viene dalla campagna”. Senza accorgersi che anche la “campagna” è scomparsa, perlomeno come concetto: perché oggi è tutta città.