Ironman è il nome della gara di triathlon super lungo, la prova sportiva più dura che esista: 3,86 km di nuoto, 180,260 km in bicicletta e 42,195 km di corsa, la distanza di una maratona. Tutti da percorrere in una volta sola. Chi ce la fa può fregiarsi del titolo di Ironman finisher, uomo (o donna) di ferro, appunto.
È una gara di “resistenza”, che sì è un fatto fisico, ma è anche e soprattutto un fatto mentale, un prodotto della convinzione, della determinazione, di un lavoro su se stessi che non riguarda soltanto le gambe e il fiato. Sfidare i propri limiti, spostare l’asticella un po’ più in alto è l’obiettivo di chi si allena per l’Ironman.
Wolfango Poggi, 43 anni, per metà fiorentino e per l’altra romagnolo, ci è riuscito. E la sua è un’impresa titanica perché, prima di cimentarsi nell’Ironman, ha dovuto imparare a nuotare. Lo ha fatto per amore della sfida, ma anche per aiutare chi è davvero impegnato nella lotta per la vita, la più difficile di tutte. Nel settembre scorso ha superato la prova IronMan Italy che si è tenuta a Cervia, legando alla sua sfida una raccolta fondi per l’Istituto oncologico romagnolo e, in particolare, il progetto Margherita, che dona una parrucca alle donne in terapia oncologica.
Come è possibile anche solo pensare all’Iroman, se non si sa nuotare?
Tutto è iniziato nel 2008 – racconta Poggi – quando ero residente a Milano e, per caso, lessi sulla Gazzetta dello Sport un articolo su Danny Ferrone, un triatleta malato di fibrosi cistica che si stava preparando per fare l’Ironman. La notizia mi colpì, perché la fibrosi cistica è una malattia incompatibile con una disciplina che presuppone resistenza fisica e capacità respiratorie fuori dal comune. Per caso, qualche tempo dopo, incontrai proprio Danny alla partenza della maratona di Milano.
Non partecipavo, volevo solo assaporare l’atmosfera e cimentarmi in qualche chilometro, senza la pretesa di portare a termine la gara. In quella occasione riuscii a contattarlo e dal nostro incontro nacque un invito, da parte mia, a trasferirsi a casa nostra, a Milano, per sei mesi, per imparare la lingua italiana e diffondere la sua associazione a sostegno dei malati di fibrosi cistica.
Questi sei mesi a contatto con Danny, la sua malattia e la sua incredibile perseveranza e determinazione, mi hanno dato modo di riflettere sull’esistenza e sulla capacità di affrontare sfide impossibili grazie alla volontà. Nel 2014, poi, mia sorella si è ammalata di sclerosi multipla. A quel punto mi sono guardato dentro. Era arrivato il momento di dare una svolta, di fare qualcosa che mi mettesse in gioco in prima persona: vincere la mia paura del nuoto e dell’acqua alta.
Ho preso lezioni di nuoto, ho imparato la tecnica, la respirazione, superato il terrore di trovarmi in alto mare. Al tempo stesso, ho deciso di fare qualcosa di concreto per sostenere l’Aism, Associazione italiana sclerosi multipla, sfruttando lo sport per raccogliere fondi da destinare alla ricerca e al sostegno dei malati.
E la decisione di prepararsi per l’Ironman, quando l’ha presa?
Ho sempre fatto sport, ma il progetto Ironman è rimasto in naftalina ancora per un po’ di anni. Fino al 2018, anno in cui una cara amica di famiglia, nostra testimone di nozze, si è ammalata di tumore al pancreas: ha lottato un anno e mezzo con tutte le sue forze, prima di soccombere alla malattia. Avevo già portato a termine l’allenamento per tentare, nel 2016, la gara di mezzo Ironman. Il mio obiettivo era partecipare alla competizione, abbinando ad essa una raccolta fondi destinata all’Aism.
Rimaneva il pallino dell’Ironman completo, una gara che ti spaventa anche solo a pensarci. Avevo partecipato a una maratona, a gare in bicicletta, avevo concluso il mezzo Ironman, ma l’Ironman quello vero… E tuttavia, pensando a tutti coloro che lottano per la vita, come mi potevo permettere, io, di considerare l’Ironman una sfida impossibile? Nel 2018 ho dato il via alla preparazione atletica per portare a termine questa gara, era l’anno in cui la nostra amica lottava contro il tumore al pancreas.
Lei è un imprenditore, ha una famiglia, due bambini, e la preparazione atletica per l’Ironman è particolarmente impegnativa. Dove ha trovato il tempo?
La mia famiglia mi ha sempre sostenuto. Sono stati mesi di allenamenti intensi, meravigliosi, che mi hanno fatto scoprire lati di me stesso che non conoscevo: sei ore di allenamento al giorno, alzandomi alle 4 di mattina e continuando a lavorare e a dedicare il tempo libero alla famiglia, richiedono organizzazione e impegno. Non ho però fatto tutto da solo, sono stato seguito da due allenatori, Gaetano di Stefano e Lina Manzo, specialisti nell’allenamento in bici e corsa.
Due-tre mesi prima della gara, ho dovuto affrontare allenamenti di 13-14 ore alla settimana, ma mi sentivo bene, in forze. Sentivo la stanchezza, ma lavoravo come sempre e non mi mancava l’energia per stare con la mia famiglia. Lo sport è una risorsa ancora troppo sottovalutata. Fosse per me, le ore di sport dovrebbero essere incluse nelle ore di lavoro, sono certo che ne trarrebbe beneficio sia il lavoratore sia l’azienda.
Durante la gara come si è sentito? Ha avuto momenti di difficoltà?
La gara è stata un’emozione unica ed è scorsa via, nonostante i momenti di difficoltà. Nei momenti di sfinimento ti concentri su chi sta lottando per la sua vita, pensi a Zanardi (Alex, il noto atleta paralimpico ed ex pilota di Formula 1, ndr) che corre con le braccia, ti rendi conto che tu non hai il diritto di lamentarti. Allora vai avanti e perseveri.
Prossime sfide?
Faccio parte della squadra Firenze triathlon e sto preparando altre gare, sempre legate a raccolte fondi per Istituti di ricerca. Non mi cimenterò in sfide superiori a questa perché accanto alla determinazione occorre anche essere consapevoli dei propri limiti e della propria età. Ma di certo continuerò a legare il mio impegno nello sport a favore di chi sta lottando contro malattie devastanti, senza nessuna intenzione di arrendersi.