Dalla quarta di copertina leggiamo:
Dai frìsoli all’aiga de sitrùn, dal rasco alla cincionella: in questo libro i buongustai potranno scoprire tanti prodotti della tradizione per poi gustarli direttamente nelle terre di produzione. La guida 2010-2011 seleziona le località dove antiche consuetudini sono ancora salvaguardate e la cucina è cultura e amore per il territorio. Tutte le specialità sono presentate con un racconto che ne narra l’origine ed il significato: in un colpo d’occhio, attraverso schede sintetiche ma ricche di informazioni diverse, il lettore è catapultato in un’Italia dove, dopo avere scoperto la meraviglia e conosciuto i produttori, può ristorarsi, riposarsi e perlustrare i luoghi circostanti per comprenderne la natura e conoscerne i tesori nascosti.
Allora daremo risposte alle seguenti domande: dove posso trovare l’olio di lentisco, i ceci di Merella, la torta di patate o i pirichittus allo zafferano? Cosa hanno in comune le smergie di San Pier Niceto e Antonello Gagini? Cosa lega il miele di barena di Mira a Giambattista Tiepolo; ed il melone zatta di Poggio a Caiano con Vittorio Emanuele II?
Insomma una guida diversa dalle solite, alla scoperta di prodotti rari o quasi scomparsi, che offre al lettore coordinate precise non solo per sapere dove andare per reperirli, ma anche cosa offre il territorio circostante.
Infatti una cultura, un segno, un prodotto cessano di esistere quando non riescono più a comunicare. Il patrimonio agroalimentare italiano conta più di 600 tipologie di formaggio, 150 varietà di pane, 280 salumi differenti. Si tratta di prodotti e specialità gastronomiche di carattere fortemente identitario, diversi uno dall’altro per materia prima, tecniche di trasformazione, qualità organolettica ma soprattutto per territorio, storia e tradizione. Di questo patrimonio inestimabile che il mondo ci invidia –e sempre più spesso scimmiotta vergognosamente- solo un 20% compare una volta l’anno sulla tavola del consumatore medio italiano, il restante 80% non soddisfa le caratteristica di mediocrità globale della Grande Distribuzione Organizzata: lunga durata sugli scaffali, facile stoccaggio, assenza di muffe e croste, ridotto impatto olfattivo e gustativo. Questi prodotti poco appetibili alle multinazionali alimentari vengono definiti, con nuova e ingegnosa definizione, eccellenze (titolo mediato dalle gerarchie politiche ed ecclesiastiche) o peggio ancora, prodotti di nicchia, enfatizzandone la vocazione sepolcrale: nelle nicchie si mettono i poveri resti dei morti, le immaginette e talvolta i lumini votivi!
Questi straordinari prodotti sono prodotti di cultura materiale a cui è necessario restituire rapidamente voce per reclamare la propria dignità sociale, il legame con il territorio, con la storia e con gli Uomini che quella storia rappresentano. Questa urgenza muove da precise responsabilità della parte più immorale dell’industria agroalimentare, quella che tiene in poco o nessun conto l’etica, la tradizione e che ha infima considerazione delle gratificazioni sensoriali del consumatore. La sua connivenza con il malaffare dei mezzi di (dis)informazione e con una ristorazione in gran parte incapace e incompetente ha fatto sì che negli ultimi 30 anni le nostre abitudini alimentari si siano lentamente e progressivamente semplificate fino a deteriorarsi.
Ecco perché assimilare un prodotto come il baldiccio di Dicomano alla Pieve di Santa Maria o alle vicende di Giotto e Beato Angelico non è profanare quegli straordinari monumenti e nomi, ma fare sì che insieme possano qualificare il nostro Paese, insieme possano creare un’autentica valorizzazione del territorio.
La “Guida alle meraviglie golose d’Italia” di Riccardo Lagorio
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Fabrizio Del Bimbo
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