In autobus, sfidando i pericoli notturni
Attente al “lupo”. Jeans e maglietta, gonnellina da sabato sera o ballerine raso terra. Si siedono da una parte e guardano di sottecchi chi le circonda, cercando di non dare nell’occhio. Sono tante le donne che si spostano usando i mezzi di trasporto pubblico. Spesso sole, tornano a casa sugli autobus notturni dopo il lavoro o serate passate a divertirsi con gli amici. Salutano il gruppo sperando di arrivare “sane e salve” fino a destinazione e di non incontrare qualcuno che le importuni. O, nel caso peggiore, le segua una volta scese dal mezzo.
Le cronache parlano chiaro: le violenze sono in aumento e la paura cresce in modo direttamente proporzionale. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di studentesse fuori sede o straniere. Le fiorentine digeriscono malvolentieri gli autobus, preferiscono l’auto e il motorino. “Eppure Firenze non era così”, si sente ripetere fino allo sfinimento da gente con qualche anno in più, “In questa città si stava tranquilli, non si correvano tutti questi pericoli”. Sarà una sensazione o saranno “i tempi che cambiano”, fatto sta che anche la città del giglio è entrata nel vortice delle metropoli da “allarme sicurezza”.
Ore 00.40, via Martelli. La gente si accalca intorno alle fermate degli autobus. Guarda gli orari, sbuffa, si allontana. Poi ritorna. Osserva le tabelle quasi a calcolare il percorso che li attende. Arriva il 71, uno dei cinque mezzi che attraversa la notte fiorentina accompagnando nottambuli e anime vaganti fino alle due del mattino. Da Bagno a Ripoli al viale Salvador Allende, a Novoli. Taglia in due la città percorrendola da un estremo ad un altro. Facendo da ingombrante accompagnatore a chi non ha ancora sonno. Alla fermata del Duomo scendono decine di persone lasciando spazio a chi sale. Spintoni, corse. “Lei scende?”. “Si, si. Un attimo di pazienza”. E’ lo scambio di battute più frequente. Come se chi è a bordo avesse fretta di conquistare la meta. L’autobus si riempie di nuovo e riprende il suo viaggio verso la periferia.
La fermata successiva è la stazione Santa Maria Novella. E’ qui che raccoglie l’umanità più inquieta, quella più agitata. Quella che, alle volte, fa anche un po’ paura. A mano a mano che il tragitto si accorcia verso il capolinea, il mezzo si svuota. A bordo rimane solo l’autista e qualche passeggero. Spesso gli extracomunitari, coloro che abitano le periferie più estreme. Coloro su cui, complice qualche fatto di cronaca e l’inestinguibile paura dello ”straniero”, si punta il dito sempre più spesso. Seguono a ruota clochard, tossicodipendenti e qualche personaggio strano, quelli che navigano sugli autobus aspettando che faccia giorno, dimenticandosi di aver perso qualche venerdì. Sull’autobus ci si comincia a guardare intorno. Ad avere paura.
Ma prima, “quando si stava meglio”, dove si nascondevano tutti questi mostri? Difficile spiegarselo. Altrettanto difficile cercare di allontanare quella sensazione di inquietudine che accompagna perennemente le lunghe traversate notturne. C’è chi adotta piccoli stratagemmi, come portare nella borsetta polveri o spray urticanti. Altre gentili donzelle si affidano a corsi di autodifesa, studiano arti marziali per essere sempre pronte in caso di pericolo. La paura esiste, il rischio anche. Di facce sospette se ne vedono molte in giro, salvo poi scoprire che i maniaci, quelli veri, hanno l’aria anonima e lo sguardo insospettabile. Abiti succinti e palandrane poco attraenti a volte non fanno molta differenza nella mente dei malintenzionati. E così si sfida la notte. Si fa appello al coraggio e si prova a mantenere il controllo. Sperando di svegliarsi al mattino senza il ricordo di un terribile incubo.
Donna al volante, discriminazione costante
Dura la vita dell’autista dell’Ataf. E se a guidare il bus è una donna, lo è ancora di più. Gente spazientita, urla isteriche e tutte le colpe del mondo addossate a chi tiene stretto quel volante: episodi all’ordine del giorno. Purtroppo, però, c’è anche un crescendo anche di episodi molto più spiacevoli, soprattutto nel turno di sera: ubriachi a importunare, botte a bordo e tossicodipendenti ripiegati su se stessi.
“Si vede di tutto”, dice Francesca, nome di fantasia, una delle 60 autiste donne dell’Ataf. Ha 30 anni e lavora nell’azienda di trasporto pubblico da circa quattro. Questo lavoro lei lo ha scelto, e per la verità ci ha sperato veramente di poter vincere il concorso. “È un lavoro stabile e poi mi affascina molto. Allora ho deciso di prendere tutte le patenti che servivano e presentarmi al concorso. È andata bene”.
Certo è strano vedere al volante di quei grossi mezzi una donna. Da sempre si attribuisce questo mestiere alla figura maschile. La pensa così anche Francesca: “Certo hai un po’ una crisi di identità appena ti siedi al volante, ma poi scendi e torna tutto come prima”. Fosse soltanto un questione di identità sarebbe molto più semplice. L’essere donna però ha anche altri svantaggi: “Le persone chiaramente se ne approfittano – dice Francesca –. Se hai davanti una donna ti comporti in maniera diversa rispetto a un uomo: ti prendi delle libertà che altrimenti non avresti”.
L’esempio è a portata di mano: “Lo scorso ottobre sono stata aggredita verbalmente. Mi trovavo in viale Nenni e un automobilista insisteva per sorpassarmi. Alla fine ce l’ha fatta e poi ha inchiodato davanti. Ho dovuto frenare per non tamponare la macchina e ci sono stati 7 feriti a bordo”. Questo è un episodio, ma l’insicurezza sembra essere una costante: “In tante occasioni non ti senti sicura, perché anche una persona malintenzionata nei confronti di un uomo si comporta diversamente. Le donne sono più tranquille e hanno ovviamente meno possibilità di difendersi”, spiega Francesca. Ma il problema più grande è chi ti trovi davanti: “In realtà non lo sai mai con che persone hai a che fare.
Capita che sull’autobus salgano ubriachi, i tossici o ancora chi vuole fare lo sborone“. Qualcuno ci prova pure? “Non molti, sinceramente”. L’altro problema è che sull’autobus regna (tristemente) l’indifferenza: “Quando succedono queste cose gli utenti fanno gli affari loro, è difficile che si mettano in tuo aiuto”, continua Francesca. Forse perché è proprio all’autista che viene attribuito un ruolo particolare: “Non rappresenti te stesso, ma rappresenti l’azienda. E così i passeggeri hanno sempre da dire qualcosa, anche per le cose più stupide. È anche il motivo per cui, qualsiasi volta che l’autobus è in ritardo, le persone vanno dritte a lamentarsi dall’autista”. In questo caso, però, non si possono chiamare importuni.