giovedì, 18 Aprile 2024
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In città si gioca (e si fischia) straniero

Non solo aspiranti campioni: sui campi di casa nostra direttori di gara da tutto il mondo. Arrivano da paesi africani come Camerun e Senegal, ma non solo. Spesso sono studenti, che una volta qui si avvicinano a questo mondo spinti da passione e rimborsi. Tanti, e in continuo aumento, anche gli immigrati presenti nelle formazioni giovanili toscane.

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Se l’arbitro viene da (molto) lontano

Se è cosa risaputa che tanti giovani stranieri, a partire dagli africani, vengano in Italia con il sogno di diventare famosi calciatori emulando le gesta dei vari Weah ed Eto’o, meno noto è invece il fatto che molti di loro, una volta arrivati qui, decidano di “armarsi” di casacca nera e fischietto e calcare i campi non per segnare o evitare gol, bensì per segnalare fuorigioco e tirare fuori cartellini. Questo, almeno, è quanto succede a Firenze, da sempre fucina di grandi arbitri, da Gino Menicucci ai più “recenti” Rocchi e Pierpaoli, passando per Cristina Cini, prima assistente donna nel calcio professionistico italiano.

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Sarà forse per quest’aria da grandi fischietti che si respira in città (e che ha portato, ai tempi di Menicucci, al record di sette fiorentini ad arbitrare contemporaneamente, la stessa domenica, altrettante partite di serie A), fatto sta che, una volta qui, anche i giovani venuti da fuori decidono di tentare la carriera arbitrale. Così, capita che nei campetti di tutta la provincia e non solo si vedano camerunensi e senegalesi, albanesi e rumeni intenti a far rispettare le regole di gioco a calciatori di ogni età e categoria. “Sì, tra i nostri arbitri ci sono molti stranieri, provenienti da ogni parte del mondo: la maggior parte dall’Africa, a partire da Camerun, Senegal e Burundi, ma anche da Albania e Romania o da Francia e Spagna”, conferma Paolo Tepsich, presidente della sezione fiorentina dell’Aia, l’associazione italiana arbitri. Sono circa una ventina, ogni anno, i fischietti stranieri in attività in città, sui 395 tra arbitri e assistenti affiliati all’Aia di Firenze, una delle più grandi a livello nazionale (“ma invito tutti i ragazzi e le ragazze a provare a diventare direttori di gara, a fare quest’esperienza nuova che li può molto arricchire: per partecipare al corso servono solo tanta passione e un’età di almeno 15 anni”, aggiunge Tepsich): un numero costante da un po’ di tempo a questa parte, dovuto a un’alta “mobilità” tra chi viene e chi va. “Anche all’ultimo corso, su 37 partecipanti, tre o quattro non erano italiani – racconta il presidente della sezione fiorentina dell’Aia – molti di loro sono studenti universitari che, durante il periodo di permanenza da noi, un po’ per la passione per il calcio, un po’ perché spinti dal rimborso che offriamo, decidono di diventare arbitri. Ma ci sono anche gli studenti Erasmus e i fissi”.

Se questi sono dunque i motivi che spingono ad avvicinarsi al mondo dei fischietti, al resto ci pensa il passaparola: due chiacchiere con il compagno di studi, magari connazionale, ed ecco che un altro aspirante arbitro bussa alla porta di Tepsich. “E poi qui si integrano bene con gli altri, per loro diventa una sorta di seconda famiglia”, rivela. Il segreto, quindi, è presto svelato. Ma come si comportano una volta sui campi da gioco? “Possono avere un po’ di difficoltà con la lingua, ma atleticamente sono davvero forti, soprattutto gli africani – dice il presidente dell’Aia fiorentina – c’è chi è arrivato a dirigere partire a livello regionale, di Prima categoria o di C1 di calcio a cinque. E c’è anche chi continua una volta tornato nel proprio Paese”.

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E se qualcuno pensa che il fatto di essere straniero, e magari di pelle nera, possa sottoporre l’arbitro di turno (figura spesso già non troppo amata da calciatori e spettatori) a un rischio eccessivo di insulti, anche di stampo razzista, questo qualcuno si sbaglia – fortunatamente – di grosso. “In tanti anni c’è stato solo un caso clamoroso di offese razziste a un direttore di gara, a cui sono seguite tutta una serie di scuse anche a livello istituzionale – conclude Tepsich – per il resto non ci sono mai stati problemi: per fortuna, si dimostra più maturità a livello dilettantistico che professionistico”. Forse, negli stadi di serie A, qualcuno dovrebbe prendere esempio.

 

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Uno straniero per compagno di squadra

Un rumeno in porta, un marocchino e un peruviano fianco a fianco a centrocampo, un albanese come centravanti. Non stiamo parlando di una selezione “resto del mondo”, di quelle che giocano nei vari tornei di beneficenza, ma di come potrebbe facilmente presentarsi una qualsiasi squadra giovanile fiorentina. Se infatti in serie A, tanto per fare l’esempio più noto, l’Inter è da molti considerata un’eccezione (essendo Internazionale di fatto, oltre che di nome), pur non arrivando a una percentuale così alta di stranieri in formazione – anche se qualche caso “estremo” non manca e non è mancato – nelle baby squadre di casa nostra, dai pulcini agli juniores, gli stranieri non sono più una rarità. Anzi.

Certo, non si tratta di campioni strapagati fatti arrivare da ogni angolo del mondo, ma di bambini e ragazzi che l’universale (o quasi) passione per il calcio unisce nella stessa formazione, su ogni campetto di centro città e periferia. Dove – e chi conosce l’universo del pallone giovanile lo sa bene – la multietnicità è ormai una realtà, e l’integrazione non una chimera impossibile da raggiungere, ma un qualcosa di concreto costruito allenamento dopo allenamento, partita dopo partita. I numeri parlano chiaro: in Toscana, il settore giovanile e scolastico della Figc (la Federazione italiana gioco calcio), quello per intendersi che comprende bambini e ragazzi dai primi calci agli juniores, conta 43.655 tesserati (a Firenze sono 10.541). Di questi, 2.651 sono stranieri, una gran parte dei quali (2.160) extracomunitari. “E il loro numero è in continuo aumento – spiega Antonio Torelli, segretario della delegazione provinciale fiorentina – spesso infatti si verifica quasi una ‘corsa allo straniero’ da parte delle società, e in qualche caso abbiamo dovuto bloccare i tesseramenti per mancanza di documenti o per situazioni irregolari. Ma il loro è un inserimento tranquillo nelle squadre, non ci sono grossi problemi di integrazione”.

Per quanto poi riguarda le nazionalità più rappresentate sui nostri campetti da calcio, sono due gli elementi da tenere in considerazione: le comunità più numerose e la loro “cultura” calcistica. Così, a farla da padrone sono i giovani albanesi (ben 1.009 tesserati in Toscana), seguiti da marocchini (392) e rumeni (368). Comunità da anni presenti nella nostra regione, e la cui passione per il pallone spinge bambini e ragazzi a tesserarsi nel club più vicino a casa, proprio come i giovani “autoctoni”. “Queste sono da sempre le tre nazioni più rappresentate – continua Torelli – ma sono tanti i Paesi presenti”. Per fare qualche esempio, i tesserati peruviani sono 82, i macedoni 50, i polacchi 38 e i filippini 21. E ancora: 23 brasiliani, 22 indiani, 40 ucraini e 48 senegalesi. Non mancano nemmeno i rappresentanti di Cina (11), Usa (10) e Giappone (1), anche se la minore popolarità del calcio in quei Paesi fa sì che, una volta in Italia, siano meno coloro che decidano di darsi al pallone.

Ma, quali che siano le nazioni più rappresentate, la strada è ormai tracciata: oltre che a stoppare la palla e a tirare in porta, nelle società di casa nostra si impara anche altro. Come a stare tutti insieme.

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