“Da tempo si sapeva che la lipoproteina(a) è associata all’infarto ma non era chiaro se ne fosse una causa o una conseguenza” ha detto Cesare Sirtori del dipartimento di scienze farmacologiche dell’Università degli studi di Milano. “La novità che emerge adesso è il ‘ruolo causale’, cioè la responsabilità della lipoproteina(a) nella malattia cardiovascolare: oggi sappiamo che la lipoproteina(a) è un fattore di rischio cardiovascolare indipendente da quelli tradizionali come colesterolo totale, ipertensione, diabete, obesità e fumo, per cui i suoi effetti si sommano a quelli dei fattori di rischio più conosciuti”.
Individuato il killer, resta però il problema di come bloccarlo: dieta ed esercizio fisico non si sono dimostrati in grado di riportare a valori normali la concentrazione plasmatica di lipoproteina(a) e scarsi sono i risultati di farmaci ipolipidemizzanti tradizionali come le resine, la terapia estrogenica e i fibrati. Le statine presentano risultati discordanti e talvolta sembrano addirittura aumentare i livelli di lipoproteina(a). Per questo la ricerca si sta orientando verso altri trattamenti. Una delle opzioni emergenti è l’impiego di L-carnitina, una sostanza endogena nota per il ruolo chiave svolto nel metabolismo cellulare degli acidi grassi. Una sostanza naturale, presente nell’organismo e normalmente assunta con i cibi che si trova prevalentemente nei muscoli e che ha lo scopo di migliorare l’attività energetica dell’organismo.
“La lipoproteina(a) è un vero e proprio osso duro: è infatti molto difficile riuscire ad abbassarla” sottolinea Sirtori. “Gli studi sull’impiego della carnitina provano l’efficacia nel ridurre i livelli plasmatici di lipoproteina(a), tale da porla come un trattamento importante per i pazienti a rischio coronarico”.