martedì, 23 Aprile 2024
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La nuova vita dei “reclusi” di San Salvi

Sara è una delle molte persone che negli anni '70 arrivarono al centro riabilitativo Oda di Diacceto dopo essere stata “liberata” dal manicomio. Come lei, lì molte altre persone hanno recuperato la “normalità” perduta.

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SAN SALVI CHIUDE. Era l’ultimo giorno del 1998. La vigilia dell’anno nuovo, e San Salvi chiudeva. La “città dei matti”, chiudeva. Calava il sipario su una pagina di dolore, sulle urla dei degenti, sul silenzio dei piani superiori dei reparti, rotto solo dal rumore dei mazzi di chiavi degli infermieri. Le prime aperture a San Salvi cominciarono negli anni ’60 ma alla chiusura effettiva si arrivò quasi 40 anni dopo. Progressivamente l’ospedale psichiatrico si svuotò. Al suo interno arrivò ad ospitare anche 4 mila persone, divise (rinchiuse?) in diversi padiglioni. C’era quello dei Tranquilli, quello degli Infermi e dei Paralitici, quello dei Semiagitati, quello dei Sudici ed Epilettici, quello degli Agitati, un pensionario, una Sezione Piccoli Paganti. Sorvegliati dall’alto delle terrazze, come carcerati. Poi col tempo l’ospedale psichiatrico si svuotò.

IL DESTINO DEI “RECLUSI”. E dove sono finite quelle persone? In tanti posti, in diverse strutture. Alcune furono restituite alle famiglie. San Salvi non ha un museo, non ha un memento di ciò che fu. Ma quelle persone, quei “matti” non si sono dissolti nel nulla. Non si chiamano più matti, intanto. Alcuni di loro oggi vivono sulle colline fiorentine, a Diacceto, assistiti dall’Oda, opera della Diocesi di Firenze che a Diacceto ha una struttura che ospita persone disabili. Lassù già nel ’73 iniziarono ad arrivare alcuni giovani usciti da San Salvi e da altre realtà manicomiali del territorio. “A San Salvi le condizioni erano disumane – spiega il direttore sanitario del centro riabilitativo dell’Oda a Diacceto, Marco Campigli – Qui arrivarono ragazzi che molto spesso non erano neppure adolescenti. Una delle difficoltà maggiori fu l’adattamento, provenivano da una situazione destrutturata che aveva creato delle nicchie autistiche”. La maggior parte di questi ragazzi non aveva una famiglia da cui tornare, e per questo, anche se l’idea iniziale era un ricovero transitorio, finì per rimanere a Diacceto, assistita dall’Oda.“Con loro fu avviato un percorso per cercare di promuovere le loro abilità, sono stati ricreati nuclei protetti, si è lavorato sulla loro autostima”. Alcune di queste persone sono ancora lì, qualcun altro è morto.

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LE STORIE. C’è ad esempio Sara (il nome è di fantasia) che della sua permanenza a San Salvi porta ancora qualche segno: “Ancora oggi mantiene l’impostazione a kapò – spiega il dottor Campigli – e tende a voler controllare gli altri assistiti, si sente parte del personale”. Ma ha fatto un sacco di strada, oggi è bravissima al telaio, e realizza lavori ottimi nel laboratorio di tessitura del centro, uno dei tanti che vengono organizzati. Come lei, dal tunnel nero di San Salvi sono uscite altre persone. Ed è stata una vittoria. Alberta Panduri era direttrice dell’Oda a Diacceto quando iniziarono ad arrivare questi ragazzi. Ancora oggi la voce si incrina un po’ dall’emozione a ricordare quegli anni lontani in cui “non c’era giorno che non arrivasse qualcuno da lì, non li voleva nessuno”. “Com’erano quando arrivarono da noi? Non si può descrivere a parole. Vederli mangiare con le posate fu già un progresso”. Ma hanno tutti fatto passi da gigante: “Alcuni impararono a leggere, a scrivere. Anche semplicemente a parlare e a camminare. E ancora oggi è una cosa che mi commuove”.

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