martedì, 29 Aprile 2025
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Recensione: Raccontami una storia speciale

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Dovevano partire per un viaggio o tornare nella loro città, ma quando si sono recati all’ufficio consolare al fine di procurarsi un visto per l’India gli eventi sono sfuggiti del tutto al loro controllo. Non è infatti facile prevedere un terremoto, ma è abbastanza plausibile la reazione immediata dei nove protagonisti di Raccontami una storia speciale: agitazione, sconcerto, paura. La catastrofe naturale che scuote le vite dei protagonisti, è il punto di partenza adottato da Chitra Banerjee Divakaruni per creare uno scenario dove ciascuno dei coinvolti, nell’attesa di un (fiducioso) soccorso racconterà una storia fin’ora tenuta segreta come antidoto al dramma presente. L’idea nasce da Uma, studentessa indiana occidentalizzata, affascinata dall’esame che sta preparando sui Racconti di Canterbury e personale riconoscimento dell’autrice a Geoffrey Chaucer.

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La tradizione del potere terapeutico della narrazione è infatti senz’altro riconosciuta e la novità di questo “genere letterario” non è di personale invenzione dell’autrice indiana che però ha il merito di aver sostituito la peste nera del Decamerone alle più contemporanee calamità naturali. Le storie scorrono leggere, la scrittura è limpida e cristallina e il libro che si consuma nella non-azione ma in un’attesa senza tempo, indugia nell’introspezione e nello scavo psicologico dei personaggi. Lentamente i protagonisti prendono forma e vita attraverso i loro ricordi e nelle reazioni ai racconti altrui; nascono i primi rapporti, conflittuali o di istantanea affinità. La signora Jiang che sullo sfondo di una Cina anni Sessanta e oppressa dalla dittatura maoista, rievoca il suo triste amore giovanile fin’ora tenuto nascosto a sua nipote Lily, una coraggiosa adolescente punk dal talento musicale. Cameron, ex militare che mostra sin da subito il suo istinto di sopravvivenza e tenta di guidare il neonato gruppo, ma si scontra con l’irruenza di Tarik, un musulmano che porta con sé il rimpianto di un amore accarezzato per caso e vive con conflitto la propria fede. Nello scorrere dei racconti, amalgamati a metà tra prima e terza persona, si definiscono o complicano i legami fra chi già ne ha e l’autrice entra nella complessa trama coniugale dei coniugi Pritchett, persi nelle loro duplici dipendenze di nicotina e pillole e nel rapporto proibito e sfuggente tra il funzionario Mangalam e l’indiana Malathi.

Ispirati dal desiderio di ricominciare una nuova esistenza, tema che è poi sempre affine alla dimensione del viaggio, i protagonisti sono spesso coinvolti nelle dolorose conseguenze della stratificazione sociale e negli effetti deleteri dei rapporti tra classi diverse, un argomento al quale una scrittrice americana ma di origine indiana (come la stessa Uma) non può non essere sensibile per la storia implicita del suo paese. Lontano da ogni possibile stereotipo, la questione emerge nella modalità forse più originale nel racconto della fiera Malathi, tradotto per lei da Mangalam, dove gli influssi dell’India sono più prepotenti; attraverso le sue parole originariamente pensate in tamil, l’autrice sembra trasportarci in quei saloni esotici in cui si consumano intensi profumi orientali e si respira l’antico conflitto fra tradizione culturale e desiderio del suo superamento.

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