Dopo le mostre dedicate ai pittori “primitivi”, cioè a Giotto, all’Arte a Firenze nell’Età di Dante, a Puccio di Simone e a Lorenzo Monaco, la Galleria dell’Accademia di Firenze rende omaggio ad uno straordinario pittore “straniero”, Giovanni da Milano, che fu protagonista della scena fiorentina toscana alla metà del Trecento, negli anni caratterizzati tristemente dalla terribile peste nera del 1348. Il 10 giugno si apre quindi la mostra “Giovanni da Milano. Capolavori del gotico tra Lombardia e Toscana”. Nativo di Caversaio, un paese del comasco, Giovanni iniziò la propria attività in Lombardia, nei territori dominati dalla potente signoria dei Visconti, alla cui corte soggiornarono fra gli altri Giotto, intorno al 1335, e Francesco Petrarca, nel 1353. In questo clima colto e sofisticato avvenne probabilmente la formazione di Giovanni da Milano, che seppe armonizzare la lezione giottesca con influenze gotiche di provenienza transalpina. Gran parte dell’attività venne tuttavia svolta dal pittore a Firenze, dove egli figura nel 1346 fra i maestri stranieri presenti in città, e dove lasciò i suoi maggiori capolavori, fra i quali il polittico per la chiesa di Ognissanti, gli affreschi della Cappella Guidalotti-Rinuccini nella chiesa di Santa Croce, la Pietà firmata e datata 1365 della Galleria dell’Accademia.
La mostra, la prima di taglio monografico dedicata a Giovanni da Milano, mira a ricostruire nel modo più esaustivo possibile il percorso artistico del maestro, il cui catalogo annovera circa 25 opere, e a far conoscere al grande pubblico le doti straordinarie del pittore, evidenti sia in opere monumentali come il Polittico del Museo Civico di Prato, che in lavori di destinazione privata.
Partendo dal catalogo messo progressivamente insieme da Pietro Toesca (1912), cui va il merito di aver riportato in luce i caratteri lombardi del suo linguaggio, e, fra gli altri, da Miklòs Boskovits (1966) e Mina Gregori (1980; 1995), si cercherà di riavvicinare i frammenti dei polittici dispersi oggi fra collezioni diverse, offrendo l’occasione irripetibile di una verifica tecnica e stilistica delle ipotesi.
Si rimanda alla mostra “gemella” degli Uffizi il compito di illustrare i riflessi dell’attività di Giovanni da Milano a Firenze e documentare le influenze reciproche, ma anche le profonde differenze, che intercorrono fra il pittore lombardo e i coevi maestri fiorentini,
Così legate, le due mostre offrono una eccezionale panoramica sulla pittura fiorentina del tardo Trecento e sulla ricchezza e varietà di quella che possiamo considerare l’eredità di Giotto non solo a Firenze, ma anche in Italia settentrionale, consentendo un bilancio complessivo alla luce dei numerosi studi usciti sull’argomento negli ultimi anni.
L’8 gennaio 1336 moriva a Firenze Giotto di Bondone, l’artista al quale già i contemporanei attribuivano il merito di un completo rinnovamento della visione artistica dell’epoca. Anche gli studiosi dei nostri giorni concordano nell’assegnare al grande patriarca dell’arte fiorentina un ruolo di assoluta preminenza nell’orientare i caratteri fondamentali della pittura in quello che il grande storico dell’arte Roberto Longhi definì “il più gran secolo dell’arte italiana”.
Ancora oggi, soprattutto in sede divulgativa, gli esemplari di pittura trecentesca diffusi capillarmente nelle più lontane contrade della penisola, sia su tavola che ad affresco, sono sovente etichettati come di ‘scuola giottesca’. Eppure si deve allo stesso illustre critico la formulazione di un paradosso di straordinaria intelligenza critica, oltretutto sostanzialmente vero, secondo il quale “di giotteschi nel Trecento non vi fu che Giotto stesso”. L’affermazione della dirompente e rivoluzionaria visione giottesca fu accolta sulla scena artistica fiorentina tra la fine del Duecento e l’inizio del secolo seguente in maniera assai articolata e stimolante. Il primo quarto del secolo è ritenuto dagli storici dell’arte – non soltanto in ambito fiorentino ma più in generale per tutta l’arte italiana -, una fase storica di eccezionale vitalità creativa.
Il periodo successivo alla scomparsa del grande caposcuola è stato invece interpretato per lungo tempo come un‘epoca di ineluttabile decadenza, dominata dall’arte ‘glaciale’ e accademica dei fratelli Orcagna, una decadenza che poi sarà sancita in maniera straordinariamente terribile e simbolica ad un tempo dalla Peste Nera del 1348. Secondo l’interpretazione critica tradizionale, invalsa poi per lungo tempo, l’arte fiorentina della seconda metà del Trecento avrebbe presentato solo pochi motivi d’ interesse, in attesa di un faticoso e modesto ‘risveglio’ registratosi nell’ultimo quarto del secolo, all’insegna in primo luogo di un rigido recupero di temi iconografici e formali di fonte giottesca.
In epoca più recente quest’assunto storiografico è stato sensibilmente mutato da una serie di interventi critici, tutti volti a recuperare la varietà e vitalità creativa dell’articolato contesto artistico fiorentino dopo la morte di Giotto. In quest’ultimo si trovarono ad operare le personalità artistiche che i critici ritengono da sempre seguaci diretti del pittore (Bernardo Daddi, Taddeo Gaddi, Maso di Banco), insieme ad altri artisti formatisi anch’ essi nel primo Trecento che riuscirono tuttavia a mantenere una relativa autonomia dal caposcuola (il cosiddetto Maestro di Figline, Lippo di Benivieni, il Maestro delle Immagini Domenicane). Recenti ipotesi critiche (Boskovits) hanno fornito nuovi contributi alle indagini intorno alla ricostruzione dell’affascinante e per molti versi ancora misteriosa figura di Stefano, con ogni probabilità nipote di Giotto, in quanto figlio di una sua figlia, Caterina, che andò in sposa ad un altro pittore fiorentino noto soltanto attraverso le menzioni documentarie, Ricco di Lapo. Si tratta del pittore fiorentino cui spetta, secondo il Vasari, il merito di aver avviato la terza tendenza della pittura fiorentina trecentesca, quella del “dipingere dolcissimo e tanto unito”, che sarà adottata e portata poi a livelli eccelsi da suo figlio, Giotto di maestro Stefano, detto Giottino, lodatissimo dallo storico aretino. In ambito assai prossimo a Stefano sembra muoversi anche il cosiddetto Maestro di San Lucchese, un’ artista fiorentino al centro dell’interesse della critica in anni recenti, che sembrerebbe proporre una sorta di ponte ideale con la cultura di stretta ascendenza orcagnesca.
Nella prima metà degli anni quaranta prende avvio anche l’attività dei due più celebri fratelli Orcagna, Andrea e Nardo di Cione, entrambi artisti di notevole levatura, in maniera particolare il primo, oltre che pittore, scultore e architetto. A lui spetta il merito di aver promosso il primo e più
antico recupero dei temi formali giotteschi, in netto anticipo sulla più complessa e articolata tendenza neogiottesca che si sviluppò in maniera trasversale in ampi settori della pittura fiorentina dell’ultimo quarto del secolo.
In questo quadro, a cavallo della metà del secolo o poco dopo, dovette giocare un ruolo chiave la figura di Giottino, in assoluto uno dei più grandi artisti italiani del Trecento, come indicato nel fondamentale e appassionato saggio di Carlo Volpe (Il lungo percorso del “dipingere dolcissimo e tanto unito”, 1983), che certamente dovette giovarsi anche degli apporti provenienti da un ‘forestiero’ del calibro di Giovanni da Milano.
Tuttavia, non meno interessante appare l’arte fiorentina degli anni intorno al 1370, che sembra sospesa tra il tema sempre più presente del recupero della cultura giottesca, la riproposizione – questa davvero ripetitiva e ‘accademica’ – delle istanze orcagnesche e le iniziali aperture verso il linguaggio tardogotico. In questo periodo di passaggio appare fondamentale l’apporto di due artisti di primissimo piano quali Antonio Veneziano, per il versante neogiottesco, e Agnolo Gaddi per le precoci aperture verso la costituzione di un linguaggio tardogotico di marca fiorentina.
L’obiettivo della mostra, che si pare alla Galleria degli Uffizi il 10 giugno, è quello di documentare, attraverso gli esemplari qualitativamente più alti, gli sviluppi dell’arte fiorentina in questo periodo, che certamente è meno noto al pubblico più vasto. Le opere esposte illustrano anche la varietà dei committenti e la diversità delle tipologie morfologiche, ma soprattutto le tendenze della pittura, il notevole livello qualitativo raggiunto dagli scultori fiorentini sulla scia della forte personalità di Andrea Orcagna, i fermenti neogiotteschi che sembrano prevalere nella miniatura dell’epoca e i vertici di raffinatezza raggiunti nell’oreficeria sacra.