Centoventicinquemila persone, un’onda di fazzoletti bianchi ad agitare gli spalti. Entrano in campo le squadre: da una parte i più forti del mondo, il Real Madrid di Alfredo Di Stefano, dall’altra la prima squadra italiana ad arrivare fin lì, in finale di Coppa dei Campioni: la Fiorentina del primo scudetto.
LA FINALE. Maggio 1957, si gioca – partita secca – al Santiago Bernabéu, ma la Fiorentina di Fulvio Bernardini non si lascia intimorire e se la gioca a viso aperto. C’è un giocatore in particolare che, a forza di dribbling e micidiali traversoni a pelo d’erba, dà pensiero ai madridisti. Si chiama Júlio Botelho ma per tutti, a Firenze e in Brasile, è Julinho: un’ala destra dalla gran classe, i baffi corti corti e uno sguardo che sembra sempre un po’ triste. Anche grazie a lui i viola sfidano il grande Real fino in fondo. Fino a quando l’arbitro concede agli spagnoli un rigore dubbio, che Di Stefano realizza. La Fiorentina accusa il colpo e pochi minuti dopo subisce il raddoppio. Il Real si conferma campione d’Europa, ma i viola e Julinho escono tra gli applausi del pubblico spagnolo.
IL SALUTO. Quarantasei anni dopo, una domenica del gennaio 2003, i viola giocano a Firenze tutta un’altra partita. E’ l’anno della ricostruzione dopo il fallimento della società, la Fiorentina riparte dalla C2 e non le è rimasto neanche il suo nome: ora si chiama Florentia Viola. All’Artemio Franchi compare uno striscione: “Ciao 7bello Julinho”. Il giorno prima, l’11 gennaio, nella sua San Paolo è morto all’età di 73 anni Júlio Botelho, e il viola club nato anche in suo onore – oltre che dell’altro grande numero 7 della storia della Fiorentina, Kurt Hamrin – lo saluta così. Tutto lo stadio si alza in piedi per un lungo applauso e viene letto un comunicato per ricordarlo. (Ma nessun minuto di silenzio né lutto al braccio, per evitare eventuali problemi legali sulla continuità tra la “vecchia” Fiorentina e quella nuova. Una decisione infelice, per cui poi la società viola chiederà scusa). Nello stesso giorno, a San Paolo, si svolgono i funerali. Tanta gente e sopra il feretro le bandiere delle sue tre squadre: Portuguesa, Palmeiras e Fiorentina.
LA LEGGENDA. Una sconfitta in 34 partite, 12 punti di distacco dalla seconda, 59 gol fatti e 20 subiti. I numeri della Fiorentina campione d’Italia nel ’56 parlano da soli. Julinho non era l’unico grande di quel gruppo – Sarti, Chiappella, Montuori, per citarne tre e per qualità diverse – ma chi ha avuto o ha un nonno che ha visto giocare quella squadra, sa che il nome di Julinho evoca il calcio di un altro pianeta molto più che di un’altra epoca. E forse ha avuto la fortuna di vedere una foto in cui c’è Julinho che si fa largo tra due avversari, uno seduto a terra e l’altro che se ne va a testa bassa da tutt’altra parte rispetto al pallone. La partita in questione è Fiorentina-Vicenza del marzo ’56. All’andata Julinho, arrivato da poco in Italia, giocò male e a fine gara il difensore vicentino che lo marcava, Mirko Pavinato, fece una battuta del tipo: “e questo sarebbe il fenomeno brasiliano?”. La risposta di Julinho arrivò durante la partita di ritorno a Firenze: finte e dribbling che misero così in difficoltà Pavinato che – si racconta – l’allenatore del Vicenza chiese a mister Bernardini di “calmare” il brasiliano. La foto, insomma, testimonierebbe l’apice dell’umiliazione di Pavinato.
LA FOTOGRAFIA. In realtà le cose andarono in un altro modo. E’ vero che quel giorno Julinho rese impossibile la vita a Pavinato, ma un filmato dell’epoca ripescato dalla trasmissione televisiva “Sfide” ha chiarito cosa successe nel momento immortalato dalla foto. Il numero 7 viola scartò effettivamente un difensore del Vicenza lasciandolo a terra, ma subito dopo perse palla. Pavinato la recuperò e fece qualche metro tutto baldanzoso, ma Julinho, caduto anche lui a terra, lo contrastò e riuscì a recuperare il pallone. “Ma questo nulla toglie alla leggenda di Julinho e alla bellezza della foto”, ha scritto Sandro Picchi sul Corriere Fiorentino. Casomai aggiunge: palla recuperata e via veloce ancora una volta, Julinho, con quegli occhi pensierosi puntati sulla porta avversaria.