Alcuni profughi ricevettero ospitalità anche nel capoluogo toscano: il Convento di Sant’Orsola, da poco ritornato nelle mani della Provincia, fu uno dei luoghi di accoglienza.
Ad aggravare la già difficile situazione degli esuli contribuì un’accoglienza ostile, un’opinione pubblica nazionale non sensibilizzata al dramma da cui questi profughi fuggivano, un’ideologia malata ed in crisi che porta all’identificazione dello straniero con il cattivo. Come gli italiani venivano identificati con i fascisti, gli slavi con l’esercito di Tito, cosi’ i profughi erano visti come reietti.
“Con questa mostra – dichiara Silva Rusich, rappresentante dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati) – cogliamo l’occasione di diffondere la conoscenza della storia e delle vicende drammatiche del confine orientale con una particolare attenzione agli anni ’40, al processo di italianizzazione forzata condotto dai fascisti italiani”.
La famiglia di Rusich arrivò a Firenze negli anni successivi al Trattato di Parigi (1947). “Le organizzazioni ecclesiastiche – ricorda ancora Silva Rusich – offrirono un sostegno a quella che solo con il tempo diverrà un’effettiva integrazione; tra i luoghi non possiamo dimenticare Sant’Orsola”. Per il vicepresidente dell’Aned Alessio Ducci, “la giornata del ricordo offre a tutti l’occasione per rendere giustizia alle vittime della difficile situazione del confine orientale: gli jugoslavi prima e gli italiani poi caddero sotto il colpo della furia nazionalista. Se di responsabilità si deve parlare, è bene che ognuno assuma le proprie davanti alle vittime”.
Il travisamento del concetto di nazione raggiunse i suoi esiti più feroci: il confine orientale, crogiolo di etnie e popolazione di lingua diversa, sull’onda del disgregamento dell’impero austro-ungarico, cadde preda della follia nazionalista, da parte degli italiani prima, dei tedeschi poi, infine degli slavi.